Il misantropo ovvero tutti i mostri di Moliere

misantropo

Riducendola ai minimi termini, la storia si potrebbe raccontare così: un intellettuale triste, ancorato saldamente a valori e principi che non ritrova nella società in cui vive, ama falsamente ricambiato una giovane e fin troppo facile fanciulla, la quale intrattiene allegre relazioni con una moltitudine di corteggiatori fino a quando, scoperta grazie al ritrovamento di alcune lettere, si trova costretta ad ammettere la propria leggerezza, venendo abbandonata da tutti. Da tutti, tranne uno. L’intellettuale triste, infatti, si dichiara pronto a perdonarla, a patto che lei lo segua in un posto isolato dal mondo. Ma lei rifiuta e lui se ne va. Fine.

Una trama esile esile, quindi, quasi da gossip, in fondo non così dissimile da certe commediacce di corna che vediamo abitualmente nei nostri cinema e nei rotocalchi in TV. E allora perché dovremmo prenderci la briga di sollevarci dai nostri comodi divani e andare alla Sala Fontana di Milano, incastrata nel labirinto di viuzze della zona Isola, a vedere Il Misantropo? Semplice. Perché questa storia esile esile l’ha scritta Molière, in un feroce impeto di sincerità autobiografica e perché Monica Conti, la regista, dimostra di saper maneggiare con padronanza la materia ribollente che si nasconde nei testi del commediografo francese.

La vicenda personale è nota. Molière, in piena crisi creativa, stretto tra le morse di una censura bigotta e ipocrita, deluso da una società sempre più borghese e falsa in cui fatica a riconoscersi, si ritrova costretto ad assistere impotente anche allo sfascio del suo matrimonio, con la sua amata Armande sempre più dedita a concedersi alle attenzioni degli attori della sua stessa compagnia.

Insomma, una biografia che si riflette in maniera quasi speculare sulla trama. Dimenticate il Molière che siamo abituati a vedere, quello che un po’ sbeffeggia e un po’ asseconda la corte francese, il guitto, il comico, il feroce assalitore della morale comune. Qui Molière entra in una fase nuova della sua vita, non ancora l’ultima ma quasi, in cui trionfa il disincanto, il senso di fallimento e la rinuncia a vivere la vita che aveva sognato. Molière si guarda dentro, con disarmante sincerità, ed elabora un testo senza filtri, un ultimo divertente, inquietante e disperato j’accuse verso tutto ciò che lo circonda. Ed ecco allora che l’esilissima trama diventa un mero pretesto per parlare dell’essere umano, in una moltiplicazione del sé moleriano, della sua impossibilità di approdare a relazioni sincere, vere, autentiche, inserito in una società cieca, corrotta, ipocrita, costantemente seduta sulle comodità borghesi.

Monica Conti tutto questo lo sa e disegna una scena scarna, spogliata di ogni abbellimento, un po’ specchio della poca trama e un po’ simbolo del vuoto che vedeva Molière. Chiede ai suoi attori di concedere fiducia ai versi di Moliere, qui presentati nella traduzione di Cesare Garboli, rinunciando a pericolosi istrionismi e introduce inaspettati frammenti onirici, in cui i protagonisti si trasformano nei mostri che stavano divorando l’anima di Molière, quasi creature da horror coreano (efficacissimo, in tal senso, l’ingresso in scena di Celimene, interpretata dalla brava Flaminia Cuzzoli), strizzando l’occhio anche ad inquietudini morali e visive in stile Eyes wide shut.

Ci mette un po’, ad ingranare, lo spettacolo, come le vecchie vetture diesel, ma proprio come queste, il meccanismo diventa sempre più convincente man mano che si procede verso l’ottimo finale, in cui tutte le menzogne vengono rivelate. Un semplice e abile gioco di luci cancella l’apparenza borghese e ci introduce in un non – luogo che potrebbe essere qualunque luogo, la corte reale come una periferia metropolitana ma che probabilmente non è altro che la stazione annebbiata dalla quale la mente dello stanco Moliére intendeva forse partire per il suo ultimo viaggio (con tanto di vaga intenzione di suicidio nascosta negli ultimi momenti del testo – per fortuna ci ha ripensato, altrimenti non ci sarebbero arrivati né L’avaro né Il malato immaginario).

Insomma, un lavoro da valutare in modo positivo, con un valido cast all’interno del quale emergono, oltre alla già citata Cuzzoli, un convincente e depresso al punto giusto Roberto Trifirò (Alceste) e un sempre esplosivo Nicola Stravalaci (Oronte).

Resta un interrogativo che vorremmo girare a mo’ di provocazione alla regista. Cosa sarebbe accaduto se anziché relegare i mostri di Molière all’interno di brevissimi frammenti posti tra un atto e l’altro, si fosse deciso di farne il filo conduttore dell’intero spettacolo, costruendo la messinscena secondo questo stile? L’interrogativo resta aperto, e non avrà risposta. Ma visto che Monica Conti ha dimostrato di conoscere il mezzo espressivo, perché non pensarci in vista di future indagini sull’essere umano?

Massimiliano Coralli

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