Samia Yusuf Omar: nata il 30 aprile 1991 a Mogadiscio, annegata probabilmente il 2 aprile del 2012 al largo di Lampedusa. Una dei tanti disperati che tentano la traversata del Mediterraneo e allo stesso tempo speciale perché nel 2008 aveva partecipato alle Olimpiadi di Pechino correndo i 200 metri in trentadue secondi e sedici. Ed è questo, 32″.16. Trentadue secondi e sedici, il titolo dello spettacolo diretto da Serena Sinigaglia in scena al Teatro Ringhiera fino a domenica 20 novembre.
Tindaro Granata, Valentina Picello e Chiara Stoppa interpretano il testo di Michele Santeramo ispirato alla vicenda di Samia, una ragazza che si allenava correndo per strada con le maniche lunghe e una sciarpa in testa, che continuava a fare sport nonostante le intimidazioni e gli arresti, che a 17 anni partecipa alle Olimpiadi arrivando ultima nella sua batteria: le immagini delle falcate compiute dalle sue gambe lunghe e magrissime sono memorabili ed emozionanti. “Sono felice. – dichiarò – Le persone mi hanno incoraggiato con il tifo, è stato molto bello. Ma mi sarebbe piaciuto essere applaudita per aver vinto, e non perché avevo bisogno di incoraggiamento. Farò del mio meglio per non essere ultima, la prossima volta”. Samia amava correre ed era caparbia. Ma quei trentadue secondi e sedici – un’eternità per i 200 metri – sono l’unico momento di gloria per Samia: rientrata in patria, venne dimenticata. Inseguendo il proprio sogno, le Olimpiadi di Londra, s’imbarcò su una carretta del mare e non giunse mai a destinazione.
“La questione dell’immigrazione, la questione dell’accoglienza, ‘lo scontro di civiltà’… insomma, il nostro presente è questo, ci piaccia o meno”: la regista Serena Sinigaglia dichiara esplicitamente quali sono le tematiche su cui ha lavorato nella messinscena. Non occorre richiamare l’attualità e la complessità di tali argomenti, soprattutto considerando le ultime veementi polemiche che animano il dibattito mediatico e politico.
La tragedia di questa giovane atleta somala ci porta però oltre la testimonianza: il drammaturgo Michele Santeramo spiega che scrivere questa storia per lui è stato il tentativo di “provare a capire cosa facciamo noi mentre il Mediterraneo si riempie di occhi aperti, cosa siamo diventati, ciascuno sulla sua isola a decidere, purtroppo, non soltanto della propria vita”. Alla linea biografica di Samia segue infatti un ulteriore livello di narrazione, grottesco e distopico, in cui Santeramo immagina che la ragazza naufraghi su un’isola abitata da un uomo e una donna, fratello e sorella. La speranza di salvezza si muta rapidamente nella consapevolezza di un nuovo orrore, una sorta di prigione popolata da mostri necrofagi, adulti-bambini che hanno perso ogni residuo di umanità, cinici e vacui, senza pietà.
Il parallelismo con i benestanti europei, seppure in chiave parossistica, è inquietante e lascia un profondo senso di sconforto, non soltanto per la sfortunata vicenda di Samia ma anche per l’abiezione a cui ci stiamo abituando, ormai indifferenti, troppo impegnati a garantire la nostra sopravvivenza e anzi rassicurati dalla constatazione che tanto “i morti non possono farci male”.
Una rappresentazione complessivamente cupa e amara, come sottolineano coerentemente anche le scene e i costumi a cura di Stefano Zullo, le luci (e le ombre) di Sarah Chiarcos, la colonna sonora di Silvia Laureti e i video di Elvio Longato. Una rappresentazione che in ogni suo aspetto punta all’essenza e sfugge ad ogni genere di pietismo e banalità, grazie anche all’interpretazione degna di nota dei tre attori in scena.
È uno spettacolo che costringe ad aprire gli occhi e ci mostra altri sguardi: occhi aperti che ci guardano dal fondo del mare; occhi aperti che guardano spaventati e confusi migliaia di persone in viaggio verso le nostre terre; occhi aperti che guardano i propri sogni infrangersi contro le onde; occhi aperti che non vorrebbero guardarsi allo specchio e scoprire quindi cosa c’è in fondo al mare e all’anima.
Marzorati
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