Poesia dei corpi per un suicidio mite

la mite

Succede qualcosa di strano quando si assiste a uno spettacolo di Cesar Brie. Si viene avvolti da una sorta di nube ipnotica che rilascia lentamente gocce di poesia. E più i giorni passano, consentendo l’evaporarazione dei sussulti emotivi provocati dai suoi spettacoli, più queste gocce si allargano, diventano gradualmente tumultuosi fiumi in piena. Si ricorda meglio un suo spettacolo dopo una settimana che non negli istanti immediatamente successivi alla chiusura del sipario. E questo avviene perché c’è un tale approfondimento nella gestione dell’impatto visivo, che tutto risulta “giusto”, come se per un’ora e mezza venissero mostrate solo fotografie da Pulitzer o dipinti di Van Gogh. E mentre la parola, come sempre, evapora, quelle immagini si sedimentano dentro di te.

Non fa eccezione “La mite”, tratto da Dostoevskij e visto nei giorni scorsi al teatro Ringhiera. Brie trasforma il dolentissimo monologo dello scrittore moscovita in una ballata a due. Una ballata della psiche in cui l’eterea materia di un rapporto amoroso diventa concretissima e violentissima disperazione, talmente carnale da diventare quasi palpabile.

Il mai felice matrimonio tra un usuraio e una giovanissima sua cliente, che culmina nell’improvviso suicidio di lei, non rappresenta che il “prima”. Quando si accendono le luci, tutto è già accaduto. E’ lui, con il suo flusso di coscienza, a mantenerla ostinatamente in vita, e questo giustifica la decisione di Brie di dare un corpo vivo e mobile alla morta.

Fredda e distante lei, nel racconto dei fatti, come se le sue parole provenissero da una dimensione diversa da quella terrestre. Impetuoso e odiosamente umano lui, nell’esposizione dei pensieri, lui che invece è ancora qui e deve sopravvivere, oltre che a se stesso, anche a una lei che non c’è più.

Eppure queste due anime così distanti, nel carattere, nell’età, nella condizione sociale e ora anche nella dualità vita – morte, non possono staccarsi l’una dall’altra. Questo Brie lo sa, ed è il motivo per cui crea per loro una danza di continuo contatto. Un contatto che non si perde mai, che talvolta unisce i due corpi in un costante gioco di tensioni fisiche intrecciate, mentre altre volte li mantiene insieme attraverso la semplice mediazione di un oggetto. Una coreografia in prosa. Un abbraccio di parole che diventa poesia dei corpi.

Lo studio degli spettacoli di Cesar Brie dovrebbe essere reso obbligatorio per tutti quelli che desiderano avvicinarsi all’arte della regia. Per la precisione con cui disegna sul palcoscenico un intreccio di linee geometriche, forse invisibili nell’atto emotivo dell’immediato ma perfettamente delineate nella memoria. Per il modo in cui gioca con le diagonali, con i piani falsati, con l’abbandono della naturale orizzontalità in favore di uno spazio totale, che si nutre anche di quella dimensione verticale che ricorda tanto un volo, lo stesso compiuto dalla protagonista de “La mite”. Per il calibro delle sue scelte musicali, per il sottile gioco di luci e ombre, per la dolcezza della sua navigazione che viene bruscamente interrotta da sussulti di ferocia che ti fanno rimbalzare sulla sedia, come accade qui quando il tavolo precipita arrivando a pochi centimetri dalla protagonista o quando le monete, simbolo dell’usura e del viaggio dei morti, vengono gettate con tale violenza da sembrare sassate dirette a colpire tutti i tuoi sensi. Perché ogni attore, pur bravo, nelle mani di Brie sembra essere bravo all’ennesima potenza, come lo sono qui Daniele Cavone Felicioni e una strepitosa Clelia Cicero.

Andate a vedere Cesar Brie, questo spettacolo o quello che vi pare. Fatevi un regalo.

Massimiliano Coralli

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