
Parafrasando Jim Morrison, le poesie hanno i lupi, ovvero i cani lupi dentro, e uno di questi, prima di uscire a rivedere le stelle, ha camminato sul metallico ghiaccio del bunker, dove era conficcato il Lucifero “con una macchia nera sopra la bocca”. Visto che anche i posti brechtiani dalla parte del torto erano occupati, non rimaneva che accucciarsi a quattro zampe, ed affidare il lungo piano sequenza drammaturgico alla soggettiva di Blondi, il cane di Hitler, uno sguardo in grado di scrollarsi di dosso il logos sillogistico, che ci mette un attimo a trasformare lo spinoziano more geometrico in un passo dell’oca fatto da compassi viventi intruppati.
Ma questo animale si declina in realtà al femminile, è una femmina, una cagna, prima tappa della trilogia di Sgorbani delle innamorate dello spavento, l’essere che porta in dote al male l’amore senza un filo di ipocrisia, senza la malattia epistemologica del dubbio metodico, ama per amare, nella forma più pura e sublimata, accetta il fatale ruolo di vittima sacrificale, sull’altare del reich, mentre gli dei stanno epicurianamente a guardare. Può succedere che Blondi trovi per via naturale, sensoriale, Kant ed il suo cielo stellato fatto di stelle-biscotto, ed ululi disperatamente, selvaggiamente, alla luna per quella legge morale di cui avverte, quasi in una struggente intuizione pre-coscienziale, la struggente nostalgia. C’è un curioso, geniale rovesciamento pavloviano in questo monologo, a salivare con l’acquolina in bocca, infatti, a dare meccanicamente la zampa, al suono delle fanfare nazionalsocialiste, è l’essere umano, la protagonista guarda questo strano, tragico gioco con la curiosità di un essere che batte in spontaneità ed ingenuità il bon savage di Rosseau. L’attrice Federica Fracassi riesce meravigliosamente a fare la punta alla coscienza, assottigliandola e spogliandola dagli orpelli blablanti della ragione, e si veste con estrema naturalità della potente invenzione linguistica di Sgorbani, di un linguaggio scoperto e battuto sillaba dopo sillaba sul terreno come l’osso di 2001.
L’interprete uggiola, si cala nel pre-verbale, nel fonosimbolismo in una dimensione che dall’aboutism della psicoterapia gestaltica passa all’esistere, all’accadere in maniera pura e cristallina, ed i suoni producano la stessa luce del diamante, abbagliano, e dalla parte dalla platea viene quasi da commuoversi di fronte al succedere di qualcosa di vero ed autentico. E’ ventrale questo personaggio, non potrebbe essere altrimenti, il baricentro del suo essere è tutto lì, nelle sue sensazioni, nelle emozioni, che non hanno filtri sociali, barriere, pudori. In un mondo che scivola pericolosamente dalla nevrosi alla psicosi, Blondi ha tutto il suo mondo interiore lì pronto a farsi fonema, gesto, non appare, è, non ha una ragione che possa addormentarsi per produrre mostri vestiti di filo spinato. Il regista Renzo Martinelli riesce a trovare i migliori reagenti scenici per far sì che l’esperimento behavourista abbia successo, veste la scena di un’erba sintetica, che ha la potenza del baffo deliberatamente storto un poco di De Filippo, ricorda allo spettatore quell’inquietante, naturale innaturalità che circonda Blondi, un mondo ideologicamente plastificato. Un vecchio faro incombe dall’alto, e si trasforma un pendolo di Foucault per smascherare il movimento rotatorio di un male che gira su stesso, mentre un ventilatore, che testimonia il set cinematografico popolato di attori e comparse che si prendono tremendamente sul serio, taglia la luce così come la Fracassi taglia a rasoiate l’aria con i suoi suoni, fa sanguinare il vento lei, con il suo guaito, bisbiglia e costringe lo spettatore a d avvicinarle l’anima, a farsi contagiare da una forza archetipica, potente, che rende il mondo, mondo, che restituisce le cose e gli esseri a se stessi. Nemmeno il bambino evocato da Nietzsche ha la sua stessa naturalità nel gioco, nel giocare la sua vita così, come si può rincorrere o mordere la palla.
La sua fedeltà non è una sperimentazione propagandistica di psicologia sociale, non è inoculata dall’esterno da uno spietato esperimento medico mengeliano, è ciò che rende la rosa rosa, è la sua stessa essenza. Blondi, alla fine, è vicinissima al male assoluto, alla portata della sua carezza, tuttavia il contagio è impossibile, ed è per questo che con la capsula di cianuro in bocca, ed il sapore di mandorle che sfuma nei suoi estremi fonemi, può con semplicità estrema dichiarare la sua vittoria. Viene da pensare che questo animale sia proprio lì, a meno di un passo dalla verità, dall’estrema intuizione, dal satori del buddismo zen, che il suo ultimo sospiroso uggiolio valga quanto tutta la tomistica, come il balbettio del santo in estasi. Viene da credere, con la stessa fermezza della Sonja di zio Vanja, che a questo povero essere a quattro zampe possa sovvenir l’eterno, proprio un istante prima che una ninna nanna in tedesco canti la buona notte a questa dolce principessa canina, che ha per Orazio l’intera platea, pronta ad abbracciarla con un lungo e meritatissimo applauso.
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