Accade, talvolta, che il contesto in cui si vive un certo tipo di esperienza influenzi in massima o minima parte l’esperienza stessa. Mi spiego: in questo caso l’esperienza è andare all’Arena del Sole per vedere Caridad. Un’approssimazione alla pena di morte divisa in 9 capitoli di Angélica Liddell.
Dopo aver visto Liebestod l’anno scorso, ero arrivata più preparata a teatro, pronta ad affrontare uno spettacolo mediamente lungo, a tratti lento e visivamente forte. Tuttavia, non avevo fatto i conti con tutto quello che è successo nei trecentosessantacinque giorni che hanno separato le due messe in scena. Dal lato collettivo, possiamo citare crisi climatiche, recessioni e le elezioni di settembre 2022, mentre dal lato personale ci metto l’ennesimo trasloco, una vita sempre più precaria e un viaggio in Canada di due mesi, che ha cambiato alcuni miei modi di pensare – c’è chi va in viaggio spirituale in Thailandia e chi a Toronto.
Tra le cose che sono scattate in me e che mi impediscono di vivere il teatro come ero solita fare, c’è il forte senso del valore del tempo e dell’impossibilità di resistere seduta per oltre quaranta minuti. Dalla performance contemporanea ora richiedo di arrivare dritti al punto, senza troppi giri di parole e mai oltre il quarantacinquesimo minuto, altrimenti si rischia quello che una mia cara amica definirebbe un “sequestro di persona”. Può suonare un pensiero duro, forse arrogante, ma è stato frutto di lunghe riflessioni. In questo momento storico, ritengo che non sia auspicabile cercare di catalizzare l’attenzione con testi e messe in scena che non tengono conto della platea, che non considerano il mondo in cui viviamo. Lo sguardo al passato è fondamentale, ma sarebbe più funzionale se fosse meno indulgente e più severo. Credo che non sia più tempo dello svago imperituro. Dobbiamo essere coscienti e occuparci la testa. Impegnarci. Ascoltarci. Sia che si parli dal palco, che si osservi dalla poltrona. Anzi, magari sarebbe funzionale vivere l’arte in maniera peripatetica e fuori dal contesto in cui ci si aspetta di vivere “il teatro”, qui inteso come forma d’arte e non come luogo.
Caridad tratta approssimativamente della pena di morte in nove capitoli, considerando il criminale come vittima, osservandolo come estrema manifestazione di umanità. La Liddell si conferma un’autrice potente, intelligente ed estremamente ironica. Ho l’impressione che lei si diverta a stuzzicare il pubblico con scene che possono ritenersi scandalose, sempre a seconda del contesto in cui si mostrano. Forse, però, non è lo scalpore che va cercando, anche perché non è collocabile con precisione: si trova nelle scene che mimano atti sessuali quasi espliciti? Nella nudità di corpi di ogni età? Nello spreco di latte? Non è chiaro. Però, in fondo, lo scandalo è negli occhi di guarda.
La cosa che mi ha scioccato, in realtà, è avvenuta dopo lo spettacolo. Dopo le scene orgiastiche, le urla, le azioni ripetute; dopo i concetti espressi poeticamente a parole e portati violentemente sul palco, in una sorta di paradosso sinestetico. È avvenuta dopo che le mie ginocchia e la mia schiena hanno implorato pietà a causa della sedia scomoda e dello spazio limitato se si è più alti del metro e cinquanta (pensandoci, la sofferenza fisica non è forse in linea con uno spettacolo sulla pena di morte? Magari comprimere lo spettatore in posti stretti fa parte dell’esperire la messa in scena appieno…). Lo shock è avvenuto nel momento meno probabile, con le difese abbassate e in un luogo distante dalla catarsi teatrale.
Ero in un bar tra amici e qualche nuova conoscenza, tra cui un uomo sui quaranta, che chiameremo Gigi, anche lui reduce dalla visione di Caridad. Inevitabile parlarne. O meglio, questo è quello che avrei voluto fare, ma in realtà mi sono ritrovata ad ascoltare le opinioni di Gigi, che non ammetteva replica. Una frase su tutte mi ha urtato maggiormente: “Se ti piace l’arte, non può non piacerti questo spettacolo”. Un assioma distopico, distorto e assolutamente relativo, buttato là per essere ammirato. Proprio come un’opera d’arte, concetto per cui si dibatteva allora, ora e per sempre.
Accettando che una persona di una certa cultura, come Gigi, possa avere colto dallo spettacolo molto più di me, riesco a intromettermi nel suo soliloquio quando comincia a parlare del concetto di morale, di giusto e sbagliato: un altro campo minato dell’ideologia, ma visto che non eravamo davanti a una platea a decidere le sorti del mondo, bensì nell’altro luogo dove si costruiscono gli equilibri universali, il bar, mi sono permessa di dire la mia, riportando un esempio molto concreto e personale, per cui – ritenevo – poco attaccabile. Ho raccontato della mia esperienza canadese e della situazione di fragili equilibri con le popolazioni indigene, almeno per quel poco che ho potuto vedere e sentire. La risposta è arrivata dritta come una baionetta. Non ricordo le parole esatte, ma il concetto è così riassumibile: “Noi non abbiamo colpe, come loro non sono vittime. Noi siamo solo i figli dei colonizzatori e loro sono solo i figli dei colonizzati”.
Ho pensato che in quella frase si racchiudessero molti dei problemi della società odierna, in cui non si vuole o si fatica molto a mettersi in dubbio. L’unica cosa che si desidera è imporsi e dirla in maniera più spettacolare dell’altro. Deve essere bello sentirsi così innocenti, così svergognati eppure pii. Quella frase, corretta e allo stesso tempo superficiale, figlia di mancate esperienze, ha avuto il potere di pormi nella condizione di riflettere ulteriormente sui grandi temi che mi occupano la mente negli ultimi tempi: cosa ci manca, ancora, per capire che non siamo solo esseri singoli, ma entità che hanno bisogno della comunità e degli spazi che occupiamo, spesso con poca cura? In questi termini, l’antropocene è una patologia, non un antidoto.
Effettivamente, l’espressione artistica (che piaccia o meno) può essere considerata uno degli ultimi luoghi rimasti in cui mettere al centro l’ego, l’io. E questo è valido sia per chi crea, sia per chi osserva. Si tratta di un dare e ricevere, sempre alle proprie personali condizioni.
Concludo riportando la frase utilizzata per l’incipit di Caridad:
“Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.”
Chi ci riesce, è perduto.
Marta Zannoner
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