Recensione: “Dialoghi degli dei”

dialoghi degli dei

L’ironia profonda che subito traspare nel vedere in scena il gruppo toscano de I sacchi di sabbia, si fonde con l’asciuttezza registica e la straordinaria capacità di Massimiliano Civica di amplificare al massimo la musicalità di tutti i testi su cui lavora.
Il risultato di questo incontro, avvenuto sul terreno dei Dialoghi degli dei di Luciano di Samosata, lirico greco del II secolo dopo Cristo, è a dire poco esilarante ed è un peccato che il Teatro Binario 7 di Monza lo tenga in cartellone per sole due sere.

I Dialoghi degli dei si presentano come un quadro narrativo dissacrante che, non necessariamente qualche secolo dopo, si sarebbe potuto definire addirittura eretico. Una raccolta di gossip riguardanti la viziosità e il continuo desiderio di trasgredire, le loro stesse regole, degli abitanti dell’olimpo. La gelosia di Era verso Zeus per le mille forme che questo prendeva pur di possedere i mortali di cui si invaghiva, le malefatte di Eros e gli screzi tra Dioniso e Apollo e così via.

Il tutto palesato sulla scena a bordo, per così dire, di una macchina registica che gli amanti di Civica, fresco di premio Ubu 2017 (“Un quaderno per l’inverno”), riconoscono subito per la sua essenzialità e per il grande lavoro sull’attore. Assistiamo per sessanta minuti ad un ciclo esasperato di interrogazioni da parte di una professoressa di Ginnasio a danno di due inermi studenti che non possono far altro che sopportare tali gratuite e reiterate ingiustizie. Oggetto di tali interrogazioni (o interrogatori se si preferisce) sono, nemmeno a dirlo, i dialoghi tra gli dei, presenti per altro sulla scena a raccontare essi stessi le loro malefatte al pubblico. Ed in questo schema, le ingiustizie a danno dei mortali, per altro quasi tutte di matrice assolutamente frivola, da loro commesse in epoca classica, si traducono nell’iniquità di trattamento che la gelida professoressa riserva ai suoi allievi. Quasi fossero un preludio alle ingiustizie arbitrarie che questi subiranno nella loro vita futura.

Civica è un regista invisibile, si sa. Il suo lavoro non si palesa quasi per nulla sul piano puramente estetico. Non ci sono piani luci né ci sono grandi o piccole scenografie sul palcoscenico. Non ci sono colonne sonore. Tutto è basato sulla concezione del testo come spartito musicale. Il testo è la sua stessa colonna sonora. Suono, ritmo e un gioco d’attore talmente fine da risultare quasi inesistente, con il risultato di riuscire ad ottenere quella semplicità estrema che registi come Peter Brook non esitavano a definire la cosa più difficile da raggiungere.
Gli attori camminano come funamboli sul sottilissimo filo che separa un clima quasi sonnolento come quello di un aula di liceo, e la pure viva necessità di tenere un ritmo esasperato, che muove a passi decisi verso la risoluzione comica finale.

Tutto è proposto con l’intento elevato di ri-creare il teatro per quel che è: un luogo d’incontro tra persone. Non si assiste. Ci si incontra. E l’incontro avviene, se si riesce far risuonare con tale concretezza un testo proveniente dalla Grecia classica, pur senza riscritture eccessive o grandi sperimentazioni. Ma lasciando, anzi, che rimanga quasi solo la musica in esso contenuta portata dalla bravura degli attori.

Dario Del Vecchio

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