Recensione: “El Marchionn e La Ninetta: Carlo Porta nel mondo degli ultimi”

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Le creature poetiche del Porta, la Ninetta ed el Marchionn, hanno caratteristiche uniche e irripetibili che stravolgono, trascendendole, le regole della tragedia classica. La patente aristotelica, ossia il passaggio dalla buona alla cattiva sorte, è certamente presente, come elemento irrinunciabile di questo genere, ma c’è una novità fondamentale: la capacità di chiamare in causa anche la commedia. Se, come ci ricorda il filosofo stagirita, la mimesi dell’azione vitale è al centro del gioco drammatico, come si può obliare il fatto che il pianto e la risata si uniscano, in una diade inseparabile, nella parabola vitale? Come un giocoliere, il poeta tiene in equilibrio questi elementi regalando alle vicende raccontate, anzi drammatizzate, una luce emotiva continuamente cangiante, in grado di catturare fatalmente l’ascoltatore, portandolo ad attraversare questa iride cromatica di stati d’animo; se ne rimane coinvolti, letteralmente mesmerizzati.

Tutto questo lo sa bene Lorenzo Loris, che, per continuare il suo percorso nella letteratura milanese, dopo Testori e Gadda, doveva affrontare il grande poeta milanese, come Ettore con Achille di fronte alle porte Scee. La lingua materica, unica, essa stessa personaggio, eruzione lavica, magma incandescente che cola nelle orecchie, vive una trasfigurazione attraverso la traduzione della poetessa Valduga, lasciandosi però contaminare dai versi originali. Si parte col Marchionn, un piccolo grande uomo che si candida immediatamente a costruire, sin dai primi fonemi, un serrato dialogo con la platea. Ancora bagnato della placenta dostoevskijana del sogno dell’uomo ridicolo, principe Myskin in trasferta milanese, è un buono irresistibilmente ingenuo, nato senza il sistema immunitario della malizia, e della nera scaltrezza. Ci voleva il rauco “cri de guerre” di Mario Sala per incarnare al meglio questo personaggio. I suoi occhi liquidi, spalancati, sono una laringe ulteriore, in grado di parlare meravigliosamente la lingua dell’interiorità e dell’anima. Vittima sacrificale, agnello pronto sull’ara, è un Isacco capace di rendersi conto che, stavolta, non ci sarà una mano divina a fermarne lo scempio. E’ l’espressione dell’assoluto di bontà, che cortocircuita nel mondo della moralità di comodo, strumento e non fine.

Mangia risotto giallo e beve vino, questo Candido che volta la schiena a Voltaire, e tiene coraggiosamente la frontalità con il pubblico. E, quando chiama alla compassione la platea, lo fa in punta di fonema, quasi per paura che le sue parole possano far male involontariamente. Elena Callegari è una Ninetta baudelairiana, ed ha più ricordi che se avesse mille anni. Ha il merito di portare in una dimensione sublimata, persino serica, le forti emozioni che agitano il personaggio. Suona uno spartito vocale alla Chopin, dove i pianissimi, i tocchi leggeri, i fiori musicali, nascondono i cannoni di accordi pieni, pronti ad esplodere. E’, certamente, una Fedra ribelle alla trama euripidea; è una donna di sentimenti radicali, ulteriore tappa di una lunga teoria di personaggi che passa da Medea, Arianna, Didone. Il suo Ippolito è interpretato da un giovane Tommaso Di Pietro, che è anche il musicista nel monologo del Marchionn. La Ninetta è una creatura senza tempo, è un archetipo junghiano; è l’espressione, in una meravigliosa sovrimpressione fotografica nella memoria, delle tre età femminili.

Ama i mezzi toni, le sfumature. Merito del regista è stato, senza dubbio, quello di far maieuticamente partorire verità cardiache a questo personaggio, sublimi nostalgie, giri eterni di valzer tra l’odio e l’amore. Ma riesce anche a suscitare risate; l’immediatezza del suo linguaggio e la concretezza, senza fronzoli, dell’approccio erotico, la rendono estremamente vera. Finalmente un personaggio del popolo parla la sua lingua, e non quella artificiale, artificiosa, dello scrittore. Come se il Porta e, insieme, Loris avessero applicato, seguendo una metafora cinematografica, una presa diretta del suono, delle battute dei personaggi, rinunciando alla ricostruzione del doppiaggio. Ama certamente, il regista (e lo dimostra anche in questa occasione), sfogliare la cipolla peergyntiana degli stati d’animo. Vuole che, prima di uscire di scena, ogni personaggio versi tutta la propria dialettica emotiva sugli spettatori.

Danilo Caravà

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