Renzo Martinelli, il regista di questo spettacolo, compie una sorta di miracolo, di prodigio, cui si ha la possibilità di assistere dalla parte della platea: quello di rendere il gesto scenico una sorta di teologia, di liturgia ieratica, capace di disfare, un filo per volta, i complicati nodi metafisici di un testo di Antonio Tarantino, che luccica di un oro da mosaico ravennate. Le due interpreti non si limitano a compiere movimenti, ma sono quel gesto: tengono la percezione dello spettatore lì, in quell’effimero, eppure immenso, istante dinamico. Si muovono come in una sorta di danza orientale, di Baratanatyam indiana, una danza classica stranita e straniante, in cui vivono, insieme, Brecht e le cerimonie sciamaniche. Come ci si perde nell’osservare il ballo geometrico della luce su di una pietra preziosa, allo stesso modo accade, osservando l’incedere coreutico dei due personaggi, col cerone di una sacralità che li fa, letteralmente, trasumanare. Già, perché del deus ex machina è rimasto giusto il meccanismo: il carrucolare di un lampadario, o l’essenza geometrica, figurativamente apparentabile con la pittura di Kandinsky, di un vestito rosso, quasi l’espressione di una virgola, di un segno di interpunzione, nel fluire continuo e generoso di un discorso. In scena due donne, l’espressione della dialettica in purezza, un concertato di voci che ricorda quello della Lakmé di Delibes.
Sono due nuove Elettra, cui poco importa che il lutto si addica o meno; piuttosto, contano le conseguenze della morte di due uomini, logoratisi nel potere. Potrebbero essere quasi due novelle Madame De Sade, uscite dalla penna di Mishima; due esseri che hanno familiarità con il fascino indiscreto del potere, che hanno osservato l’esercizio fatalmente sadico dello stesso, e che, nel finale di partita, lo liquidano in un gesto superbo: forse l’aprirsi di un ventaglio, la presenza metafisica di un oggetto lì, tra le mani, per aiutare il gioco di ombre dei fari. Il regista trasforma nell’atanor, nel fornello alchemico della scena, una serie ininterrotta di parole, un duello verbale in punta di fioretto, che parte con la regola dell’interruzione al primo sangue, ma poi non disdegna le sciabolate, o affondi letali; come in una musica del Novecento, nell’alternarsi preciso, metodico di due strumenti, che dimostrano quanto la matematica e l’irrazionalità possano felicemente convivere nel fonema. Sono, letteralmente, due lire di Orfeo quelle che ascoltiamo. Aiutano gli oggetti a smuoversi, a risvegliarsi dal loro torpore; riportano il rito teatrale in una dimensione ai confini dell’indicibile, poggiata sul ramificarsi delle dita di una mano, che danzano, per un lunghissimo istante, immobili tableaux vivants di un divinità femminile che s’oblia, e fa obliare la platea. Elena Arvigo valorizza tutte le note tanniche del testo come un esperto sommelier, raccontandone, attraverso la gamma fonetica, tutto il bouquet olfattivo. Trasforma la sua laringe in un prezioso decanter, per ossigenare questo prezioso vino fonetico. Passa, con estrema destrezza e agilità, attraverso i diversi registri, al pari di una silfide.
Emanuela Villagrossi rende il suo corpo il corpo stesso del testo scenico; alla luce dei fari, ha meravigliosi dialoghi sotto il suo incarnato, con un superbo teschio, che tanto sarebbero piaciuti a Cioran. Nel suo corpo al di là dell’umano, essenziale come fosse uscito dal pennello di Schiele, risuona una musica fonetica sciolta, vivace, delicata, evocante certi passaggi di Chopin sulla tastiera. Fa la sua comparsa come una divinità del teatro No, e, più che muoversi, attraversa gli istanti, sino al loro più profondo abisso. Questo spettacolo, analizzando la nevrosi del potere, attraverso l’attesa delle esequie solenni (e, da Godot, l’attesa è un’irrinunciabile categoria dell’esserci), è capace di protrarci dal tempo cronologico a quello cairologico: il tempo per come è percepito, per come si allunga qualitativamente, al pari degli orologi che si sciolgono di Dalì. Per parafrasare una famosa massima pirandelliana, essere è niente: essere è farsi nel linguaggio, nella parola, attraversando quell’oceano sintattico con aggraziate bracciate, per scoprire che, dietro la rinuncia del potere, ci può essere la speranza di una libertà.
Danilo Caravà
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