
Compare l’attrice, richiamata dalla forza invincibile della scena, da quell’horror vacui che annuncia con un filo di sottile inquietudine la piece, e ci si accorge immediatamente, citando Auden, che il male subdolamente sa farsi umano, terribilmente umano, e potrebbe dormire nel nostro letto o mangiare al nostro tavolo. Eva, biblicamente e surrealisticamente destinata ad un destino da prima, ed insieme ultima donna del reich, gioca idealmente con la Arendt e con la banalità del male, rilancia pokeristicamente con “tutto il suo resto”, attuffando e silenziando l’assordante suono dei cannoni e delle bombe con quello beckettiano delle abitudini, composte da frasi e da gesti che girano su stessi, e cercano di ninnare la coscienza, di stordirla giusto qualche istante prima che si consumi il finale di partita. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una versione femminile del Candido voltairiano, che si è scordato intenzionalmente se il nostro sia il migliore od il peggiore dei mondi possibili.
La protagonista racconta l’attesa di un fatale Godot, il quale viene come tragica ed insieme grottesca postilla, emendamento dell’annuncio zarathustriano. La si sente distintamente dalla platea battere a macchina su una vecchia Adler, nascosta chissà dove nel suo apparato fonatorio, fonemi che rincorrono i pensieri, con la stessa innocente pervicacia con cui si rincorrono farfalle. Federica Fracassi, animata da un daimon della recitazione, favorita da un Dioniso teatrale che si esprime nel riuscito testo di Sgorbani e nell’efficace regia di Martinelli, tira fuori una vocina di testa, un’irriverente Zazie nel metrò, per poi avventurarsi nei meandri del buio e dell’inquietudine, là dove le parole si sporcano di umori umani, troppo umani, e la vocalità assume il metafisico sapore agro della dannazione. La verità piomba con un tonfo sordo al pari della mela di Newton, in un momento di sovrappensiero da parte della donna del Fuhrer, quando a parlare non è più lei, ma l’Altro di lacaniana memoria, ed allora la voce della Fracassi riesce a farsi quella della Pizia, di una Cassandra mitteleuropea, che, tra un pasticcio di fegato ed una birra , è doppiata da un Apollo che predice gli estremi sospiri, ed insieme gli ultimi rantoli, della tragedia che sta per compiersi. Eva si sdoppia nella proiezione di Rossella O’Hara, diventa la sovraimpressione cinematografica delle immagini di “Via col vento” proiettate sulle pareti della scena, di un mondo psichico dove amore e guerra convivono, immagina finali distopici, di far deliberatamente deragliare la trama, adopera la pellicola come Arianna usa la trama e l’ordito della su tela, la fa e la disfa in attesa che il suo improbabile Ulisse torni definitivamente dall’assedio di Stalingrado.
Racconta con forza il rovesciamento di ruoli di una Danae che restituisce a Zeus la sua pioggia dorata. Si mette in competizione con la cagna Blondie come farebbe la Deneuve ferreriana, e si immagina di perfezionare il suo ruolo ancillare trasformandosi in quel canide ciecamente fedele, rovesciando il cuore del racconto di Bulgakov, e percorrendo a ritroso il percorso evoluzionistico, tornando a quattro zampe. Tuttavia come un rumore di fondo, un acufene provocato da un bombardamento, la sua coscienza non si arresta, ed il mulino mentale dei suoi pensieri continua ad esistere, malgrado si affanni, con il passo frenetico ed ossesso di una danza bacchica, a spegnerlo. E quell’evidenza cartesiana non si spegne nemmeno con il proiettile che sfiora pericolosamente la giugulare, nemmeno con la manciata di tranquillanti. Eva, esattamente all’opposto dell’hal di 2001, non ha paura che la mente svanisca, ma della sua orrenda presenza. Mentre compita i bollettini medici di Hitler, il meteorismo, grottesca somatizzazione di un pallone gonfiato, ed il tremore genialmente trasmutato in una taranta incontenibile, in un’esplosione dell’irrazionale che tracima anche dalla dimensione fisica, racconta e si racconta ancora la menzogna dei suoi giorni felici, lascia giusto il tempo di immaginare una blasfema nemesi divina, tuttavia è presente a se stessa come non mai, tramuta il suo corpo in una sorta di bacchetta rabdomantica in grado di cogliere nel bunker il più sottile rivolo del male. Sa di sapere, e questo rovesciamento della massima socratica suona come la più fatale e crudele delle condanne.
Non le resta che un elisir dall’odore di mandorla, l’unico acido in cui sciogliere definitivamente gli ultimi fuochi della sua ratio, e quegli ultimi istanti diventano drammaturgicamente non più un tempo cronologico, bensì uno cairologico, in cui gli attimi si mettono con studiata lentezza il cerone dell’eternità. Ma forse l’inquietudine più grande che dona il personaggio alla platea, come eredità spirituale affilata, con cui ci si può escoriare l’anima, è che Eva è prima di tutto la storia di un amore umano, troppo, o terribilmente umano, è il si incondizionato della Molly Bloom joyciana, persino all’incarnazione del male assoluto, si esprime negli occhi chiusi nel piacere della Clitennestra immaginata dalla Yourcenar, ma ben aperti quando piangono. Un brivido, un fantasma, percorre la platea al pensiero che l’amore di una everywoman possa pasteggiare a cianuro con herr Hitler, ed allora è fatale che lo scroscio di applausi del finale abbia più che mai un effetto catartico e liberatorio.
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