Recensione: “Extravagare. Rituale di reincanto”

extravagare
foto Pietro Masturzo

Non c’è, e non ci deve essere, una modalità esegetica, interpretativa, intesa nel senso classico del termine, per questo lavoro teatrale. Sfugge volutamente, volteggiando leggero, a qualunque trappola di significazione unilaterale, di recinto semiotico, di classificazione lin(n)eare. La fascinazione (anche se il termine non rende piena giustizia alla sensazione provata; meglio, la partecipata trance sciamanica) evocata da questo spettacolo è qualcosa di unico e irripetibile. Per la prima volta, le pagine nietzschiane de La nascita della tragedia dallo spirito della musica si fanno carne, voce e danza, verità dinamica, esistenziale. Ecco che, in scena, esplodono  i ditirambi di Dioniso: un coro in scena, come realtà essenziale, primaria, originale di ogni possibile teatro. In questa realtà gruppale, come direbbe Moreno, dove cadono, decisamente, i confini tra “io” ed “io”, si mostra la perturbante, magmatica verità di una psicologia, di un’antropologia del profondo, dove si ha la netta sensazione di assistere a un più alto grado di consapevolezza transpersonale. I movimenti coreutici creano, con la parola, una sorta di continuum, nel quale, a un certo punto, diventa pressoché impossibile determinare linee di confine. Si possono leggere, in trasparenza, la grazia e la fluidità delle danze asiatiche, del Kathakali, in cui corpo e piede vivono, con la terra, un rapporto generoso, diretto, immanente, a differenza delle punte metafisiche del balletto classico. Ogni gesto, ogni momento danzato, sono voluti, necessari e pieni di consapevolezza, di un “qui ed ora”, di un tempo che cessa la sua dimensione cronologica, per abbracciare quella cairologica, qualitativa, percettiva, in grado di sfuggire ai confini del prima e del dopo.

L’evocazione dell’età dell’oro, di un’epoca in cui l’archetipo di riferimento fu la Dea Madre, diviene un memento per la società contemporanea, tetragona all’amore declinato attraverso il femminile e la maternità, e intrappolata nell’eterna belligeranza dell’homo homini lupus. Il rito ha la capacità di far, letteralmente, terremotare i luoghi comuni, i significati, persino di donare una meravigliosa risemantizzazione del simbolo del toro; non più segno di superbia virile, bensì proiezione di un luogo uterino, accogliente, materno, potente nella sua facoltà generativa, creativa. A compiere questo miracolo in scena, sono detenuti ed ex detenuti del carcere di Opera, persone in grado di avere una specialissima affinità elettiva con la ricerca della libertà, in ogni declinazione dell’umano sentire. Il loro teatro pervasivo, immediato, fatto di fonemi grumosi, veri, tattili, generosamente dipinti sulla tela della messa in scena, restituisce tutta la verità del rito, che non abbisogna di essere spiegato, parafrasato, o, peggio ancora, dissezionato sul tavolo anatomico dei significati. Qui si vive la piena dimensione della parola, ancora immersa nelle profondità del mythos, non già intruppata, meccanicizzata nel meccanismo seriale del logos. Una battuta cardine di questo lavoro recita la decadenza del nostro presente, in cui resta una (pseudo)comunicazione senza comunità. Solo il rito si propone come medicina, insieme, psicologica, antropologica e spirituale, in grado di curare la malattia dell’alienazione dal proprio sé, dalla virtualità che si propone come specchio solipsistico.

Ivana Trettel, drammaturga e regista, compie il miracolo di trasformare singole individualità nel diamante purissimo e incontaminato del noi, del coro, in grado di parlare, da pari a pari, persino con le divinità. La presenza di una sorta di rettile trasparente, sublimato in un lungo tubo plastico, ci ricorda, evocando la famosa canzone dei Doors, quanto sia sciamanicamente importante cavalcare il serpente, long seven miles. Reggendo quelle spire, rievocando la circolarità che appaga filosofia e spirito, simbolo di eterno ritorno, sconfitta del devastante tempo lineare, gli interpreti danno al rito la giusta misura di catarsi. Anzi, si essenzializzano nell’immagine di una ineffabile unità del plurale: del concetto, caro al buddhismo Nichiren, di itai doshin, tanti corpi un solo cuore/mente.

Danilo Caravà

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*