
Maria Brasca, fin dalla sua prima apparizione, si annuncia come una presenza speciale, un vento in grado di spazzare via tutte le certezze sceniche. Merito di Testori è quello di ritrovare tutto l’umanesimo corporeo, tutta la carne dei poveri cristi e delle povere criste, che devono cercare la propria metafisica nella fisica, nell’anatomia personale. Ecco, la Brasca è questo: è una vita nella sua espressione più immediata e sincera, è il flusso di coscienza del sì di Molly Bloom, è linguaggio carnale, che risuona anche nell’anima. Perché il segreto sta tutto lì, nel far vibrare il corpo, come la bacchetta del rabdomante, per trovare anche quel vento fermo che abita la presenza umana. La protagonista è un’Arianna che ha già fatto sua la lezione di Bacco, e ora i ruoli si invertono. Ora è lei a trascinare, nella sua danza vorticosa, il Dioniso delle periferie, il dio di Niguarda, dei casermoni, e di tutto quel cemento che è riscattato dalla carne di chi lo abita. Fare l’amore diventa un gesto privo di qualunque malizia o pruderie; diventa un rito gioioso, festante, una cerimonia sacra di fertilità, una falloforia dell’Antica Grecia, in cui portare la gioia dell’esistenza immediata.
Non se ne abbia a male Nietzsche, ma Testori, idealmente, rovescia il suo assunto: c’è qualcosa di potenzialmente divino anche nel bassoventre, nel prendersi per mano, e scoprire, parafrasando De Andrè, che il paradiso sta lì, in una delle tante ”camporelle” della periferia milanese. Ma non si cada nel fraintendimento di un essere che viva superficialmente, transitando da un amore effimero all’altro. La Brasca ha in sé , decisamente, il codice genetico dell’eroina tragica, dell’Antigone che non mercanteggia “il pochino”; o sia tutto, o sia il niente. La poesia è proprio questo: riscoprire l’assoluto in un desiderio dei sensi, trovare le incolmabili fenditure di luce nei casermoni, nelle case a due passi dai binari, sempre in predicato di subire le fatali vibrazioni dei treni in corsa. Andrée Ruth Shammah riesce a far vivere la parola drammaturgica testoriana in tutta la carne che è necessario ci sia; con i numi tutelari di Parenti e dell’autore nella voce (e aprendo lo spettacolo, a proposito di voce, con il canto di Adriana Asti), trasforma idealmente lo spettacolo in un inno alla vita, in una Nona di Beethoven, in quella piacevole scossa elettrica, quel brivido che corre lungo la schiena quando le endorfine danno significato alla parola gioia. Nessuna maschera pirandelliana, nessun filtro: la protagonista è nata dalla penna dello scrittore senza pelle, quindi qualunque vento la fa vibrare, e, insieme, rischia di ferirla.
È null’altro che se stessa, selvaggiamente presente alla vita; si potrebbe affermare che, prima di ogni altra cosa, Maria faccia l’amore con la vita, come solo una donna sa fare. Marina Rocco incarna la protagonista accettando, e vincendo, la sfida di andare là dove non si tocca, in quella zona di continuo scambio tra anima e carne, nella ventralità che si dice e si racconta senza fronzoli o infiorettature. E fa tutto questo portando in dote al personaggio un sorriso fatto, insieme, di sole e di terra, e offrendo questo fiore alla platea con l’immediatezza di un paesaggio che appare, improvvisamente, dietro una curva. Mariella Valentini restituisce al pubblico la sorella di Maria, il suo doppio, la sua ombra: l’anima piombata, rassegnata, che trova il riscatto in un ballo, una casalinga disperata nella cattività babilonese, tutta ripiegamento, della vita. Luca Sandri interpreta magistralmente il marito della sorella, restituendo con naturalezza l’anima grossier del personaggio; l’untuosità del grasso con cui si sporca le mani, finisce col contaminarne l’anima. Cechov lo censirebbe come una di quelle creature che si limitano a mangiare, a bere, a lasciarsi esistere. Filippo Lai è l’uomo della Brasca, il Romeo Camisasca: l’anima semplice di Niguarda, l’istinto del bon sauvage declinato nelle periferie. Riesce a esprimere financo l’imbarazzo di un corpo apollineo che si muove un po’ sgraziato, una vita che, fino a un certo momento, si è espressa con la naturalità di un gesto immediato di seduzione. Ma la Maria Brasca sa anche essere una sorta di levatrice socratica, in grado di far partorire l’uomo maturo dal ragazzo; impersona, altresì, l’educazione sentimentale di un giovane che scopre, improvvisamente, qualcosa dietro la carne, qualcosa che cerca la poesia universale del per sempre, della promessa d’amore. La scenografia si apre sullo scorcio proletario in cui una palpebra di cemento, alzandosi, ci mostra la pupilla di questo interno, cucina e bagno, dove la vita decisamente ferve, s’agita e si racconta, come non faceva da tempo. Tutti meritati i generosi applausi.
Danilo Caravà
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