Recensione: “La voce di Peppino Impastato”

peppino impastato
foto Daniele Manzella

La voce, è l’unica cosa che non potranno mai toglierci. Si apre con queste parole lo spettacolo, e procede per tutta la sua durata su quest’onda. L’Onda Pazza di Peppino Impastato, la trasmissione che più di tutte faceva luce sulla realtà politica locale di Cinisi e Terrasini, non senza una buona dose d’irriverenza e sbeffeggi.

Il palcoscenico è diviso a metà. Da una parte Pierpaolo Saraceno, regista e interprete nei panni di Peppino Impastato, dietro un banchetto vestito dell’insegna di Radio Aut, Giornale di controinformazione radiodiffuso. Dall’altro lato, in un’ombra che si accende solo all’intermittente entrata di Mariapaola Tedesco, la madre Felicia Bartolotta.

È la madre, avvolta nel lutto, a raccontarci della “guerra” che vivevano in casa quando Peppino iniziò a opporsi alla sua stessa famiglia mafiosa, lasciò la casa del padre da cui era considerato una vergogna, e iniziò con i suoi compagni a dare voce a tutti quelli che non potevano, o che fino a quel giorno avevano creduto che l’unica strada possibile fosse abbassare la testa. Un’interpretazione secca quella di Mariapaola nei panni di Felicia, che ci restituisce il racconto della morte del figlio con forza e fermezza, abbandonandosi al sentimentalismo solo nel finale. Dall’altro lato invece Peppino parla con la voce di Pierpaolo, voce per lo più estrapolata dalla sbobinatura delle registrazioni originali della trasmissione. È il 1977 quando Peppino inizia la sua avventura radiofonica, e non ci si stupisce che fosse considerato un pazzo in un tempo in cui la mafia nemmeno si nominava. “Facciamo finta che…” risuona in sala il ritornello della canzone di Ombretta Colli, sigla della trasmissione, facciamo finta, finta che la mafia non esista.

Ma la mafia esisteva allora ed esiste pure oggi, solo che Peppino non aveva bisogno di gridare per farsi ascoltare. Difficile rendere l’arguzia del suo pensiero, la provocazione delle parole scelte con cura, la satira tagliente e mai declamata. Difficile rendere una trasmissione radiofonica su un palcoscenico, forse perché affezionati alla voce di Peppino, e non alla sua immagine, che nell’interpretazione di Pierpaolo Saraceno finisce per prevaricare sul senso delle parole. Su cui veniamo ricondotti per mezzo di una chitarra: immagine nostalgica di un uomo che intona la morte a cui sta andando incontro, e che ci risulta discordante accanto al fervore degli intermezzi radiofonici.

Le luci si alternano, si accendono e si spengono su Peppino e Felicia, che non si incontrano mai, ognuno racconta la storia dal proprio punto di vista. Finché non rimane solo quello della madre, che piange un figlio ed esalta un eroe.

Peppino era un pazzo, è vero, ma non il pazzo che hanno voluto occultare sotto il tritolo additandolo come un terrorista prima, un suicida dopo. Era uno di quei pazzi che diventano coraggiosi perché sanno di essere pazzi, nel momento stesso in cui prendono un microfono e parlano, e dicono la verità. E vengono ammazzati per questo.

A Peppino i siciliani devono molto, a quella fetta di siciliani che oggi è sempre più numerosa, quelli che insieme a lui e dopo di lui hanno detto basta al silenzio assenso, all’innominabile omertà che per la paura non nomina nemmeno se stessa. A Pierpaolo Saraceno riconosciamo il merito di aver dato corpo a questa storia. A Felicia Impastato ancora di più, per non aver taciuto sull’insabbiamento della morte del figlio, e avremmo voluto più spesso vederla uscire dall’ombra del palcoscenico. Lei che ha rappresentato fino al 2004 (anno della sua morte) non solo la Sicilia silenziosa nello scialle nero del lutto, ma della ben più contemporanea consapevolezza eloquente , quella in cui oggi per fortuna la gran parte dei siciliani può riconoscersi.

Alessandra Pace

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