Basta immaginare una Molly Bloom joyciana che ha imparato a fumare i sigari di Brecht, dal sapore acre e dal fumo denso, per cominciare a comprendere la protagonista di questo monologo. E’ un flusso di coscienza ininterrotto, una serie di uno-due verbali capaci di mettere al tappeto la più paludata drammaturgia del politicamente corretto. Le parole non sono semplici parole, sono carne fonetica, sono due gambe incredibili, uscite da un numero ammaliante del più sincero e convinto cabaret berlinese. Damen und Herren,qui, si dimenticheranno decisamente di essere damen ed herren. Qui il gender scivola via, oliato da un efficacissimo lubrificante drammaturgico. E Aristotele si ritrova il suo principio di identità sotto una delle tre carte, ma la mano è più veloce dell’occhio, e il maschile/femminile è sempre la carta non scelta. Basta un microfono per confessare l’inconfessabile, per scrollarsi di dosso Hegel e tutta la filosofia idealistica; per scoprire che la ragion pratica è molto irragionevole, e si trova, fatalmente, alle latitudini torride del bassoventre. Ecco che l’Anna O. di Breuer può diventare, in men che non si dica, l’histoire d’O.
La famosa paziente di Freud gioca con le sue psicopatologie meglio di Hesse con le sue biglie di vetro. Parafrasando Pascal, si potrebbe scrivere che la nevrosi ha delle ragioni che la ragioni non conosce. E la famosa fissazione alla stadio orale può diventare la celebre banana warholiana della copertina dei Velvet Underground. Marta Pizzigallo entra nei meandri di un personaggio al di là del bene e del male del gender. Crede nel dio del teatro, in Dioniso, ma, soprattutto, crede nella sua carne: e la sua carne, il suo corpo, fa parlare in un linguaggio galvanico, elettrico, biomeccanico. I gesti sono delle scosse, quasi sempre devianti rispetto alle intenzioni espresse dalle parole. Questa anima buona, insieme brechtiana e berkoffiana, vive in un Sezuan teutonico, ed esprime, meravigliosamente, tutta la dialettica inconciliabile di una coscienza, in guerra con se stessa e con il mondo. Antiaristotelica per affinità elettiva, fa del suo gesto, straniato e straniante, una forma di ribellione, di rivalsa esistenziale, etica, spirituale. Non sappiamo se dal baccello teatrale di questo ultracorpo nascerà un übermensch ; sicuramente vive una vita che si ribella, decisamente, ai minima moralia adorniani, imparentata, semmai, con gli immoralia di Battiato. E’ vero questo personaggio: senza sconti, senza fronzoli ed orpelli, si mostra alla sua platea come un’immagine necessaria ed insieme disturbante, al pari di un quadro di Bacon. L’essere umano si accorge che il corpo della vita sta stretto, tira da tutte le parti, fa grattare come un tessuto sintetico, costringe, vincola, fa deragliare i movimenti.
E le parole gocciolano, esplodono, come l’action painting che accade alle spalle dell’attrice. Un atto di ribellione, come una secchiata di colore sopra la tela; e Pollock può imbattersi in qualche macchia di Rorschach, per dare forma a qualche fantasma dell’inconscio. Il sempiterno senso di colpa tedesco nel confronti del mondo ebraico viene rigiocato come non succedeva dai tempi di Fassbinder. Qui non c’è manicheismo, non ci sono buoni o cattivi, e i nostri ritardano ad arrivare; qui, il diritto alla rabbia, alla ribellione e alla sofferenza viene conquistato un centimetro alla volta, un fonema alla volta. Marta Pizzigallo arriva a certi sguardi che ti tagliano le vene , meglio di una lametta. Nel suo guardare vivono, contemporaneamente, l’orrore di Kurtz, l’insostenibile pesantezza dell’essere, e insieme la mistica, metafisica tristezza di un angelo che ha perso il proprio cielo fin dal primo respiro, ma lo riconquista proprio lì, quasi senza accorgersene: in quella zona di confine tra cielo e terra, tra mare e spiaggia, tra la sublimazione degli occhi, e la verità d’avorio di una guancia che sembra fatta apposta per ospitare una lacrima. Tutto questo accade mentre la vita in sospensione, come i corpi di 2001, non vive, o fa finta di vivere seduta su una sedia. Un medico cronenberghiano è pronto a celebrare questa messa chirurgica, in cui rinnovare il miracolo della transgenderizzazione. D’altra parte, gli angeli non hanno un sesso. Ma questo angelo è molto distante dai puttini di Raffaello, parla molto chiaro come non mai, e mostra pepite di poesia pronte a brillare tra sassi più indigesti di quelli dei significati di Lacan. La protagonista giunge a offrirsiin remissione dei peccati del mondo, su una sorta di simbolica poltrona a staffe, per reinventareilquadro L’origine del mondo di Courbet, proprio qualche istante prima che si liberi un tonante scroscio di applausi da parte della platea.
Danilo Caravà
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