
Tasti neri e tasti bianchi: è tutta lì la musica del pianoforte in potenza, pronta a scoppiarti dentro al cuore all’improvviso. Ed è questo il segreto dello spettacolo della Shammah, nato, drammaturgicamente, come una cadenza musicale, uno spartito, un lungo e preziosissimo attacco di incantata malinconia. Non sono forse tra le più belle poesie di Baudelaire, quelle dedicate allo spleen? I novelli Harold e Maude giocano le loro lezioni di piano, che diventano fatalmente lezioni di educazione sentimentale, e il ricordo va, certamente, al meraviglioso testo di un giovane Flaubert.
Gronda anima questo lavoro teatrale, si lascia annusare dalla platea, e odora di dolce: del sangue delle cavità cardiache, che battono incessantemente il tempo dello spettacolo, ma con un adagio, con un largo. La regista non solo si ispira alla musica di Chopin , ma, nel costruire lo spettacolo, è come se facesse, letteralmente, diventare gli interpreti le dita del pianista, che aleggiano, volteggiano sulla tastiera; a volte, toccano particolarmente il cuore, con i pianissimo. Ed è la pianista, una Milena Vukotic imperiale, a mostrarsi alla platea in movimenti coreutici, leggeri, da silfide, capaci di annullare il tempo, di farla trasumanare in un corpo da ragazza. che smentisce la sua età anagrafica. E’ il miracolo della poesia che si compie: nell’atanor, nel fornello alchemico della scena, la carne diventa tensione lirica, incolmabile fenditura, come un taglio su una tela di Fontana, verso l’Assoluto.
Strehler ha avuto “Elvira, o la passione teatrale” per mostrare tutta la sua meravigliosa “passionaccia”; la regista/autrice Shammah ha questa pièce per proporre lezioni d’amore che si candidano, naturalmente, ad essere metasceniche, metadrammaturgiche, fino ad investire il teatro tutto. In controluce si vede chiaramente un’anima impalpabile, serica, che si sdoppia, anzi si triplica, nella pianista, nell’allievo e nel narratore. In questo delicato interno domestico, piacevolmente velato – di quando in quando – da un tulle, diviso su due piani ed illuminato da una calda luce ambrata, la vita, con buona pace di Adorno, vive, eccome se vive. E anche il timido, complessato, nevrotizzato, nascosto al mondo, giovane allievo si apre alla musica, e, dunque, all’esistenza. Insomma, si ricorda quanto l’arte-terapia possa essere efficace; quanto la musica, e il teatro per estensione, continuino ad essere terribilmente catartici. De Andrè chiude i versi di una sua struggente poesia/canzone, “Il sogno di Maria”, con questi versi: “I vecchi, quando accarezzano, hanno il timore di fare troppo forte”.
Ecco, nello spettacolo c’è tutta questa attenzione di toccare appena, di dare una lunghissima carezza, dall’inizio alla fine, al pubblico, o anche un sorriso gentile, un gesto delicato. Ciò che si apprende, o, meglio, si rimembra in questo lavoro, è l’insostenibile leggerezza dell’essere. Milena Vukotic ha occhi che si mangiano il mondo dalla curiosità, come potrebbe fare un gatto guardando fuori da una finestra. E’ il fanciullo pascoliano, diventa un Piccolo Principe, una guizzante Zazie, una giovane ninfa capace, ancora, di smuovere il cuore del più ritroso degli dei. I suoi fonemi sono caldi, avvolgenti, leggermente granosi, come certe pennellate sui quadri naïf, in grado di esprimere tutta la loro matericità. Quando muove le mani nelle mani del ragazzo, si trasforma in una pianista dell’anima, e suona tutte le note più toccanti. Federico De Giacomo dimostra di essere una sorta di enfant prodige della scena. Riesce a mostrare come un fiore chiuso, renitente all’apertura, possa sbocciare, e scoprirsi in tutta la sua joie de vivre. Andrea Soffiantini è un narratore d’eccezione, capace di entrare nella storia in punta di fonema, continuando a suonare lo spartito drammaturgico con la sua presenza discreta e gentile. In questo spettacolo dà mostra di sé un diamante purissimo, un distillato cardiaco da bere a piccoli sorsi, capace di far “tirar su col naso” la platea, presa dall’incanto e da una leggera pioggerellina di commozione.
Meritano, gli interpreti tutti e la regista/autrice, un plauso speciale per questo lavoro, che sembra, idealmente, dare una risposta, vibrante e sussurrata, allo sferzante titolo dell’opera di Auden “La verità, vi prego, sull’amore”. E, davvero, non c’è momento che non sia la testimonianza di una verità del cuore.
Danilo Caravà
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