Recensione: “Lo zoo di vetro”

vetro

Vedere attraverso, sostare con lo sguardo su una superficie, ma, al tempo stesso, avere la possibilità di andare oltre:  questo è il segreto del vetro, è la geniale intuizione che il regista dello spettacolo, Luigi Siracusa, ricava dal grande classico di Tennessee Williams. Non solo il serraglio di vetro riguarda, in una prospettiva meta-teatrale, il gioco della quarta parete, sottolineato, in questo caso, dell’acetato scritto, che funge da membrana osmotica con la platea; ma anche i personaggi stessi, nel loro insieme, non solo la figlia. C’è una immediata metafisica del vetro in grado di rendere tutta la trasparenza degli esseri umani, le intenzioni devianti, il linguaggio non parlato, la temperatura emotiva, tutto quanto contribuisca a dare visione alle voci di dentro, ai colori sfumati, privi di contorni neri, come intuizioni di quadri impressionisti.

Gronda  umanità questo testo, con una mitopoiesi di esserini modellati nella pasta vitrea, cantati da un Omero metropolitano che scrive i suoi versi su una scatola di scarpe, mentre l’ira di Achille si fa, freudianamente, materna. Il padre non c’è, è la presenza-assenza di un quadrato di luce, di una sublimazione geometrica più radicale di qualunque opera di Mondrian. Mancano, dunque, la legge, l’ordine, in questo ritratto di famiglia vittima delle forze centrifughe. In questo sud, insieme geografico e spirituale, i pensieri si fanno più torridi, e le battute, letteralmente, sono roride, grondano sudore. Le rose e il cemento, ecco l’impossibile connubio che il drammaturgo cerca disperatamente nei suoi testi: la leggerezza di desideri lirici e delicati come seta, e la verticalità ingombrante, violenta, di palazzi e strade che schiacciano i fiori, con l’indifferenza degli dèi di Epicuro. Un Rimbaud nato nell’America nel ‘900, questo è Williams, l’ultimo ansante anelito, grido disperante e disperato di mancanza di fiato metafisico, nella terra del business e del pragmatismo. Il figlio, evidente, anzi, dichiaratissimo alter-ego dell’autore, osserva dall’esterno il cuore fibrillante di queste schegge di repressa libertà che vibrano di luce riflessa, come le creaturine dello zoo di vetro. T

utto è portato all’essenziale, niente fronzoli scenografici, nessuna concessione al dramma borghese, o alla sua tendenza ad appoltronarsi sugli arredi di scena. Si vuole –  e vi si riesce – arrivare all’essenziale. E questo essenziale, come suggerisce Saint – Exupéry,  è, quasi, invisibile agli occhi. Ma, se si osserva attentamente, diventa luce colorata, luce fonetica che si mostra, suo malgrado, nelle pozzanghere emotive in cui i personaggi si schizzano continuamente. Francesco Sferrazza Papa è un figlio soffertissimo, già iscritto in una recitazione prossima al misticismo, al martirio della carne, alla sofferenza fatta di tensione muscolare e tendinea. I suoi fonemi tagliano maledettamente, luccicanti quanto il coltello di Mackie Messer. Tensione in cerca di risoluzione è la cifra del suo personaggio, poesia che si fa intenzione latente. Valentina Bartolo è la madre dalle mille contraddizioni. dai desideri che già sferragliano, numerosi e inappagati, sull’ennesimo tram chiamato Desiderio. E’ la persona descritta da Pirandello nel suo saggio sull’umorismo, quella donna di una certa età che si comporta e si veste da giovane, verso la quale la voglia di ridere si smorza, e si fa dramma, quando ad ella ci si avvicina. E’ la voce dell’anima, che si fa stonata, quanto più è vittima della cattività della carne di un esistenza mancata.

Zoe Zolferino è un’animula vagula e blandula, rappresenta il quasi silenzio del vetro interiore, più autentico dell’albatros di Baudelaire. Un meraviglioso essere fatto per splendidi voli, la cui presenza caracollante sulla terra, il suo incerto zampettare, appare fatalmente come zoppia. Recita per sottrazione: parlano i suoi tacet, le sue reticenze, le sue apparenti timidezze. Mentre l’amico Luca Carbone torreggia in scena, come un gigante buono e simpaticamente guascone. Porta l’aria leggera, dopo i temporali strindberghiani della vicenda. E’ la tentazione del vivere che si coagula in un corpo, in un personaggio; il giro di valzer vorticoso, il momento di bovarismo degli altri personaggi. E’ il Dioniso che salva, solo per un lungo, lunghissimo istante, l’ennesima Arianna dalla sua solitudine dei campi di cotone. L’ultima gibigianna, gli ultimi riflessi colorati, prima che ci sia uno di quei goodbye che solo uno scrittore americano può rendere. attraverso un blues di parole, gesti e situazioni.

Danilo Caravà

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