Recensione: “Mater certa”

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L’uomo, da secoli, più di ogni altra cosa brama di conoscere il futuro. A questa riflessione viene introdotto lo spettatore di Mater Certa andato in scena al Teatro Libero, attraverso le parole di due dei quattro attori in scena che incarnano un contemporaneo e ironico prologo di una più antica e mai stanca tragedia umana. Viscere di animali, fondi di caffè, incroci astrali: si parla di tutto quello che l’uomo ha tentato di interpretare per ottenere risposte, perché qualcuno gli indicasse la via da seguire, perché troppo incerta è la sua esistenza. Il prologo sbeffeggia l’uomo sciocco e apre lo spettacolo con una risata che coinvolge l’uomo sciocco che è in tutti gli uomini, perché bizzarra e imprevedibile è l’esistenza di ognuno. Ma non è questo il punto. Viene dichiarato fin dall’inizio il finale della storia, eppure questo non impedisce alla storia di raccontarsi attraverso le vicende di un uomo e una donna che vogliono avere un figlio e non ci riescono. Il punto è sperare con loro fino alla fine, coinvolgere lo spettatore nella frenesia di una ricerca mai stanca, come le antiche tragedie che insegnano all’uomo a farsi piccolo di fronte al finale della storia, al destino che rimescola le carte e manda in aria i progetti, e dà all’uomo la possibilità di essere grande nell’accettazione di un dolore.

Il testo di Michele Ruol, fresco vincitore del Premio Hystrio “Scritture di scena” con “Lea R”, è scritto con intelligenza, laddove per intelligenza possiamo intendere la capacità di affrontare un tema serio con poca serietà. Complici le prove attoriali di Andrea Bellacicco, Silvia Giulia Mendola, Silvia Rubino e Andrea Tonin, tutti efficaci nella loro interpretazione familiare e sincera, che riesce per questo ad esaltare le sfumature più tragiche, porgendole agli spettatori nella stessa chiave quotidiana in cui la vita le proporrebbe ad ognuno di loro. Non c’è distanza tra il palco e la sala, ma un continuo dialogo ricercato finemente con l’ironia che attraversa e trasporta per intero lo spettacolo. Le scelte registiche di Lorenzo Maragoni nella direzione degli attori sono mirate, si percepisce la coralità come forza a supporto del senso del testo, e l’immediatezza visiva di una costruzione scenica semplice. Cinque sedie, quattro attori, un’assenza.

La tragedia, nel riferimento a Creusa e Xuto che consultano l’oracolo di Delfi, si fa contemporanea nella consultazione dei forum da parte della giovane coppia protagonista. Sibilline quanto quelle di un oracolo, e inclini a interpretazioni quanto mai casuali e soggettive, le risposte che ottengono disperdono tutte le loro energie e fanno convergere i due innamorati verso un’isteria che produrrà come unico risultato il naturale divergere dei loro sentimenti. Quello che in principio era l’obiettivo comune, l’accrescimento di un amore attraverso la moltiplicazione della coppia, diventa motivo di discordia, luogo di insoddisfazione.

La quinta sedia rimarrà vuota fino alla fine, nessuna sorpresa in questo. La catarsi finale rimane coerente a tutto il percorso dello spettacolo e non ha niente di eccezionale da raccontare. Se non l’ordinaria eccezionalità di una storia quotidiana ben raccontata in tutti i suoi aspetti. Una di quelle storie che dovrebbero essere raccontate più spesso, che non illude non inganna, che la vita la prende così, con una risata di cuore anche col cuore a pezzi.

Alessandra Pace

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