Recensione: “Mercurio”

mercurio
Foto Angelo Redaelli

Da qualche parte nei bui di questo spettacolo potrebbe esserci nascosta una Jeanne Moreau pronta a ricordarci, con la sua voce inconfondibile, che ”each man kills the things he love”. C’è qualcosa di maledettamente fassbinderiano in questo adattamento di Corrado d’Elia del romanzo di Amelie Nothomb. Nei rapporti affettivi esiste un terribile e spietato gioco di sopraffazione, c’è l’eterna partita dialettica, di hegeliana memoria, del servo e del padrone, la ricerca di identità nello specchio dell’altro. E’ fatale, in questo jeu au massacre, che l’alterità sia il paradosso di una personalità, la quale costruisce la sua forma sull’immagine che sta di fronte a essa.

Su un’isola deserta, da sempre luogo geografico d’elezione che ben si presta a esperimenti sociali, gli schiavi di Marivaux tali rimangono, forse ancor di più il capitano, vecchio re Lear la cui corona si è ossidata di un divertito cinismo. E poi due donne, o forse una che vive il suo sdoppiamento e movimento dialettico, la giovane mascherata e l’infermiera Françoise, l’incarnazione della ragione cartesiana destinata a deragliare in questo spazio chiuso, dove i personaggi descrivono traiettorie geometriche come biglie. Si sente l’odore della persona bergmaniana, che si mischia a quello asettico del disinfettante spirituale, di una spietatezza e un’implacabilità more geometrico, in grado di muovere la vicenda passo dopo passo, battuta dopo battuta. Decisamente si trova in questo lavoro anche qualcosa di brechtiano, nel succedersi preciso dei quadri, fotografie in movimento, straniamento vestito di una vertigine hitchockiana, in cui si smonta scientificamente il cuore, lo si gira e rigira come se fosse un rompicapo, un cubo di Rubik. La persona è fatalmente, etimologicamente, “la maschera”. E allora eccola apparire la maschera, sul viso della ragazza, a nascondere una ferita psichica, persino metafisica, più che biologica.

Questi occhi senza volto, questo “io” che si è accorto d’esser poco più del suono della parola che lo dice, se ha rinunciato a trovare un autore, cerca qualunque altro personaggio in cui identificarsi. Proprio in una piece dove gli specchi sono negati, e di loro troviamo le vestigia in forma di cornici, il rispecchiamento è il tema che batte con insistenza sulla tastiera dei significati, come accade nel brano di Ligeti “Musica Ricercata”. Dopo “l’essere è trovarsi” di Pirandello, scopriamo “l’essere è specchiarsi” della Nothomb. In questa galleria degli specchi mancati, di una Versailles temporaneamente trasferita in una sperduta Sant’Elena, si sperimenta l’esilio da se stessi, e si ritrova, nella lettura, quella vita che stenta adornianamente a vivere. D’Elia costruisce una serie di quadri viventi, affilati quanto la lama della ghigliottina, per tagliare definitivamente la testa alle visioni confortanti.

E’ un Pavlov implacabile che conduce i personaggi verso un fatale trattamento Ludovico. E il buio, tra una scena e l’altra, parla come i silenzi di un monologo, come il tacet di uno spartito musicale. In questo flipper scenografico rarefatto, dove pervicacemente batte la pallina dell’attenzione sullo scoglio del divano centrale, che raccoglie naufraghi dell’esistenza meglio della zattera del pittore Gericault, ogni volta che ricomcia la partita, il tempo riprende, circolarmente, ad esprimere il suo eterno ritorno; le abitudini non sono più una sordina beckettiana, ma una sottile forma di veleno, con cui intossicarsi, a poco a poco, in cerca di una sorta di antidoto mitridatico. Chiara Salvucci vive efficacemente l’inquietudine del suo personaggio della giovane donna mascherata, costruendo una affascinante sovraimpressione tra l’epicità e l’immedesimazione, trasformando questo pendolo nella fatale tortura di Poe. Il gioco teatrale di una creatura che si fa specchio di fronte allo specchio, una poetessa pessoana che crede che sia dolore il dolore che sente veramente. E’ fragile quanto un cristallo, ma terribilmente tagliente, quando questo prezioso vetro si rompe.

Giovanna Rossi è lo sguardo della platea che sale sul palcoscenico, è la misteriosa governante del romanzo di Daphne du Maurier, Rebecca la prima moglie. E’ prima osservatrice, poi vittima, poi carnefice, più misteriosa del terzo uomo di Aristotele. Spilla i suoi fonemi trincerandosi dietro i cavalli di Frisia dei suoi sguardi, ed è una perfetta giocatrice di poker che ha smarrito la verità del suo bluff. Gianni Quillico è soprattutto una presenza puramente fonetica in grado di giocare, con la storia tutta, come il gatto fa con il topo; la sua vocalità è una lama dal filo particolarmente tagliente, che passa, con gustato sadismo, di piatto, sulla platea, come una minaccia incombente. E poi si presenta seduto, con un libro in mano, nell’atto di leggere meta teatralmente questa storia che ha l’argento vivo addosso, che ha come titolo il mercurio, metallo ribelle, liquido, ma anche la divinità dei messaggi, del linguaggio, e insieme dell’ambiguità che lo stesso porta con sé. Per scriverla alla Hillman extra Mercurium nulla salus, ma forse anche in sua compagnia.

Danilo Caravà

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