
L’eroe bigger than life è l’immediata traduzione anglosassone della hybris dell’antica tragedia. E questo spettacolo, capace di coniugare la riscrittura titanica wellsiana del capolavoro di Melville con i potenti dei eschilei, ne è la dimostrazione. Eccolo qui il cuore di tenebra dei dilemmi umani, il dilemma amletico spogliato dai vestiti razionalistici e discorsivi, il Sisifo di Camus che si chiede senza sconti cosa lo trattenga dal puntarsi una pistola alla tempia. La dialettica è giocata non su un piano razionale, ma su una baleniera, dove un Prometeo tuona contro il suo Zeus albino, e la sua ribelle bestemmia è un arpione nel cuore della più concreta delle metafisiche e teologie. La chiave di volta la dà proprio Padre Mapple durante la sua omelia, evocando le creature umane che osano desiderare di vivere quanto il proprio dio, l’impossibile partita a scacchi con il destino è aperta.
A fare la prima mossa è proprio Achab, un personaggio che ha fatalmente, a causa della sua menomazione e dell’arto di legno, un modo tutto suo di muoversi e di pensare, ha un ritmo particolare, un anapesto, un tempo di marcia che apre e guida questa tragedia marina, che batte, attraverso le mani dell’equipaggio, sulle tavole metalliche di questa particolare baleniera, che sciorina i panni della catarsi sui duri scogli delle colonne d’Ercole, oltre il punto dove l’Ulisse dantesco ha trovato il suo naufragio. L’opera si apre pirandellianamente con gli interpreti che hanno ancora idealmente su di sé l’odore forte, pungente, del Lear, un re dotato di una fiocina verbale puntuta, e pronta a far sanguinare il cuore delle più nascoste verità. E quasi subito fa la sua irruzione in scena Achab/Lear, un De Capitani che ha un filo talmente tagliente di recitazione, da far sanguinare l’aria che fende con la prua della sua fisicità.
È certo un personaggio in cerca d’autore, ma che, una volta trovato, lo vuole pervicacemente assassinare, come un essere pronto a uccidere il Buddha incontrato per strada. Di nuova torna un Sisifo che ha deciso di scagliare la pietra, che è obbligato a spingere eternamente, contro la balena bianca. E il bianco è l’antitesi cromatica di un nero caravaggesco che invade la scena, dalla quale emergono, da quell’oceano di pece vischioso, oscuro, porzioni dei volti mani che cercano di sfuggire al gorgo esistenziale di questo Stige. Si fa Caronte questo Achab, e di bragia, oltre che gli occhi, ha le parole che sono fiamme in grado di accendere, di bruciare il cuore più ghiacciato del suo equipaggia. Il capitano appartiene a quella lunga sequela di personaggi che hanno volutamente sconfinato l’insconfinabile, che hanno deragliato dalle rotaie esistenziali deliberatamente, sono Kurtz entrati con la propria carne nel territorio nietzschiano al di là del bene e del male. Lo si ama, lo si odia, questo capitano, ma non può esserci indifferente, è la forma della parte più atavica della natura umana, del suo grido più volte soffocato, della sua volontà di dirsi oltre le parole, di farsi poesia, di diventare canto universale, eterno, spezzando le catene dell’impermanenza.
De Capitani restituisce alla platea un palcoscenico essenziale, dove sopravvivono le ossa metalliche dei tavoli da cui è stato succhiato tutto il midollo della significatività, e le scale di Giacobbe, pronte a fare del cielo dei numi il bersaglio ideale delle fiocine. Gli umori del teatro più autentico, più vero, l’incenso più intenso di un rito sacro, i canti liturgici di un musical perfetto in cui la tragica superstar è la balena, sono contenuti tutti in questo spettacolo. Cristina Crippa diventa una sorta di corifeo, i suoi fonemi già tragici per costituzione, i suoni che diventano il sangue denso di una Lady imbarcata sulla barca del destino, sono la necessaria punteggiatura di questo perfetto meccanismo scenico. Giulia Vania diventa un Pip, un fanciullo che strapperebbe a lacrima anche al più indifferente dio epicureo, e quando l’emozione è così forte da superare i limiti del normale parlare, non può che cantarci la sua saggia follia, non può che diventare, geniale intuizione registica, la perfetta stampella di Achab, la levità dionisiaca, l’innocenza che si fonde, in una perfetta sovraimpressione taoistica, con la spietatezza del capitano.
L’Ismael dell’interprete Angelo Di Genio è un Omero che ha gli occhi di uno stupito fanciullo pascoliano, incarna il canto blakiano insieme dell’innocenza e dell’esperienza. Marco Bonadei è un primo ufficiale in grado di incarnare il doppio di Achab, l’incarnazione di un pericoloso dubbio socratico, che però è vinto dall’irresistibile attrazione gravitazione di questa volontà incrollabile. Tutti gli interpreti sono schegge palpitanti, esistenziali, di questo legno umano, di questo burattino esistenziale che, piangendo ed urlando, trova la sua umanità, proprio un momento prima di finire risucchiato nella nemesi di Moby Dick. Le vele diventano corpo, sostanza, ma anche caverne platoniche dove si proietta l’ombra coriacea dell’umano volere. E poi c’è il protagonista, l’Achab di De Capitani, il centro del centro di questo maelstrom, il viso di un James Stewart al centro dei vortici di Vertigo, l’aleph e l’omega, il fiocinatore e il fiocinato che ha costretto a caro prezzo il destino a una patta, a uno stallo metafisico, a un’ideale rivincita della partita a scacchi del cavaliere bergmaniano.
Danilo Caravà
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