
Bisogna immaginare di essere a Palermo nel primo pomeriggio di un afoso agosto, quando le ombre lunghe abitano i vicoli e i parcheggi vuoti de la Kalsa. Perdendosi tra antiche dimore autorevoli, palazzi anni ’70 e case di mattoni sfatti, intravediamo in un cortile solo un pallone abbandonato. Forse l’ombra di un gatto gira l’angolo. La seguiamo e la strada diventa in salita. Ci mostra una piazzola. Dei gradini. È così che, all’improvviso, davanti a noi, si apre la Chiesa di Santa Maria dello Spasimo. Nascosta, sola, in uno spiazzo rialzato tra le case. Abbandonata per anni. Il tetto aperto, le grandi arcate, le pietre dissestate e un albero solo. E il silenzio.
È questa la Sicilia che Vetrano e Randisi ci mostrano. La sua bellezza lirica è tra le strade svuotate e le abitudini color seppia di una Palermo amara, stanca, fantasma di sé stessa.
L’atmosfera sacrale del testo di Scaldati si intuisce appena si aprono le porte della sala Fassbinder. Il duo ci fa entrare in sala in punta di piedi, accompagnati dal rumore della macchina da scrivere del “Sarto”, che già sta sognando i suoi personaggi. La vita confluisce subito nel teatro e con esso si mescola. La meta-teatralità pirandelliana continua: la gestazione dei personaggi è in atto, e loro lo sanno. Soffrono, maledicono il padre, vedono il loro futuro di sangue, si perdono nella linea temporale. Consapevoli del loro pensiero, cercano il loro corpo. Sono i fantasmi di un desolato condominio del quartiere arabo.
Scaldati fa quindi un passo indietro: le voci degli inquilini escono dall’oscurità, diventano corpo e si mostrano in una sequenza fotografica. Come la fotografia, sono ombre di luce. Sembrano i protagonisti di vecchie istantanee di famiglia ingiallite, grandi come francobolli; ma potrebbero anche uscire dal rullino di Nan Goldin e dalla sua serie “The Ballad of Sexual Dependency”.
La scrittura di Scaldati vive infatti di contraddizioni. Ricorda una pennellata espressionista, corposa; poi diventa la luce dei quadri impressionisti; si trasforma nell’onirica sabbia di Dalì in “Destino”. La protagonista che danza tra le dune potrebbe essere benissimo anche Sabella, che dorme tra i cartoni e sembra un’attrice alla luce dei lampioni. Ce la immaginiamo, che fuma, sotto i riflettori della strada, e il sogno surrealista diventa subito uno scenario neorealista. La magia vive accanto alla violenza.
Il dolore è mostrato in tutte le sue sfaccettature, evocate dai suoni di un siciliano tanto melodico quanto aspro: la traduzione in italiano diventa parte del dialogo, un’altra ombra che bisbiglia all’orecchio dei personaggi e dello spettatore. La potenza espressiva dei due attori parla con la voce sospesa della malinconia, e allo stesso tempo urla per la disperazione. L’essenziale è evocato da una sedia, una parrucca e da due anime spezzate.
Gli aggraziati gesti delle mani di Vetrano, il suo timbro vocale, tanto soave quanto amaro e spezzato, danno corpo alla fragilità e alla schiettezza viscerale del suo personaggio, che, di notte, segretamente, si veste da donna e si prostituisce. E soffoca la sua identità nell’omicidio.
I timidi passi di Randisi, le sue mani che giocano con il cappello, mostrano la rabbia e l’abnegazione di un uomo che diventa carceriere del personaggio di Randisi e prigioniero di sé stesso, di un uomo che non riesce a spegnere le voci degli “altri” e rifiuta la sua omosessualità. “Ombre folli” ci parla d’identità represse: se non si nascondessero, la società li isolerebbe. Se non peggio.
Spettri di sé stessi, nessuno dei due si chiama mai per nome. Ombre stanche, piegate dalla vecchiaia, hanno passato la loro vita ad aspettare. Tra giornate tutte uguali, divise tra il lavoro e le confessioni non fatte davanti alla televisione, diventano parte di un’apparente civiltà. L’ambiente ha creato queste due solitudini, diventate a loro volta parte di quella comunità che li rifiuta. Reietti, come la Lupa o Rosso Malpelo. Rilegate alla fine del firmamento, trovano spazio solo nell’ambiente naturale: gli astri e i fiori non parlano, custodisco i cadaveri dei loro segreti. Le loro identità, come le stelle, non trovano spazio all’angosciante luce del giorno. E senza un lamento, si spengono.
Il lutto e la vita, l’amore e l’odio, sono gli elementi che tornano in tutto lo spettacolo: insieme alle ripetizioni lessicali, scandiscono il ritmo dello spettacolo. Creano un senso di ineluttabilità e di attesa, quello che contraddistingue le signore sedute sulle sedie di vimini, davanti alla porta di casa.
Esprimono la condizione di chi vive con un nodo alla gola che non riesce mai a sciogliere. Questo testo rievoca il tempo esistenziale, ma anche tempo passato e, purtroppo, il presente.
Scritto nel 2000, è ancora tristemente attuale: la comunità LGBTQIA è ancora soggetta a tentativi d’isolamento, alla denigrazione e al rifiuto. Le fiammelle accese sul palcoscenico diventano lumini a lutto: muore, senza un valido motivo, la nostra umanità. Ma possono diventare anche un messaggio di speranza, quella che c’è una parte d’Italia che non si guarda intorno fischiettando, ma illumina una realtà. La realtà che era anche quella dei personaggi del drammaturgo siciliano: figli di una vecchia dama, un tempo appariscente e sfrontata, ora crepuscolare e affascinante, che a fine giornata si leva la parrucca e si siede sulla poltrona.
“Ombre folli” è uno splendido omaggio a Scaldati, la cui anima poetica torna a vivere al Teatro Elfo Puccini grazie alle cure di Vetrani e Scaldati. Uno spettacolo che è una “carezza di carne”, un immergersi in una Sicilia sangue e stelle.
Irene Raschellà
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