Recensione: “Opera Antigone”

Antigone

OPERA ANTIGONE: UNA LENTA SINFONIA DI MORTE

Ci sono classici normali e classici Alfa, ovvero quelle opere talmente radicate nelle assi del palcoscenico da aver ormai sfondato la gabbia del semplice “testo teatrale” ed essere entrati direttamente nel significato stesso della parola “Teatro”. Parliamo di Baccanti, di Romeo e Giulietta, di Locandiera, dei Sei Personaggi, di Godot e di un pugno di altre opere, tra cui rientra, senza ombra di dubbio, Antigone. Quando ci si avvicina a queste opere Alfa è necessario dotarsi di una buona dose di coraggio e di una buona idea che possa scardinare il chiavistello del “già visto” e del “già noto”.

Promette bene, in tal senso, questa Opera Antigone (in scena a MTM Manifatture Teatrali Milanesi – Teatro Litta fino a domenica 26 novembre) made in Francesco Leschiera, regista giovane e fresco che si avvale della collaborazione di un cast composto da cinque interessanti attori di differente estrazione (Ettore Distasio, Veronica Franzosi, Andrea Magnelli, Giulia Pes, Ermanno Rovella) e dell’ausilio drammaturgico di Antonello Antinolfi e Giulia Lombezzi, con cui il regista rielabora alcune parti dell’opera introducendo nuovi frammenti. Ma la promessa di cui sopra verrà rispettata solo in parte.

La vicenda è più che nota: la giovane Antigone rifiuta l’editto emanato da Creonte che prevede un diverso trattamento per i cadaveri dei suoi due fratelli Eteocle e Polinice. Il primo, eroico difensore della città, avrà l’onore della sepoltura. Il secondo, considerato traditore, verrà lasciato insepolto, preda di belve e avvoltoi. La ribellione di Antigone e la sua conseguente condanna trascineranno Tebe in una spirale di morte che coinvolgerà lei, il suo promesso sposo Emone (che è anche figlio di Creonte) e infine Euridice, moglie del tiranno, gettando Creonte nella più disperata solitudine.

Lo spettacolo parte lento, troppo lento, e non riesce mai, in un’ora e mezza, a proporre un concreto cambio di marcia. Il monologo iniziale di un Tiresia illuminato da occhiali a luci psichedeliche precede un lungo assolo al pianoforte (suonato dal vivo da Walter Bagnato) a cui fa seguito un altro monologo, non particolarmente incisivo, scritto apposta per Ismene, che assume in tutto e per tutto le veci del Narratore (o Il Prologo) di Anouilh, senza però dotarsi della sua dolente e dissacrante ironia.

Solo a questo punto, passati svariati minuti dal “buio in sala”, ha inizio la vicenda vera e propria, che Leschiera sceglie efficacemente di ambientare all’interno di una splendida scenografia incolore, dominata da lunghissimi teli di plastica che un po’ ricordano un mattatoio e un po’ una casa abitata da spettri, e lavorando con competenza e attenzione sul site specific, usando le reali strutture del Teatro Litta (interessantissimo l’utilizzo della scalinata sul fondo del palcoscenico, da cui sale e scende il solo Creonte e, nel finale, Tiresia). L’impianto illuminotecnico è manovrato con grande qualità e restituisce costantemente un’atmosfera di morte, di polvere, di sconfitta, andando abilmente a sposarsi con le trasparenze mortuarie e spettrali dei teli di plastica.

L’intero teatro si trasforma nella piazza tebana. Tutti noi, non più spettatori ma cittadini di Tebe, siamo chiamati a giudicare l’operato di Creonte e a consigliarlo. Gli attori spuntano da tutte le parti: ai nostri lati, dietro di noi, sopra di noi e la trovata di far interpretare il coro dei cittadini ad alcuni finti spettatori che all’improvviso si alzano dalle poltrone e dialogano con i protagonisti, è davvero sorprendente, stimolante ed efficace.

Ma tutto questo non basta a modificare il ritmo della piece, che si mantiene blando dall’inizio alla fine e forse trascina una parte degli attori (che in altre circostanze abbiamo invece trovato estremamente convincenti) ad interpretazioni un po’ sottotono. Il promettente Tiresia psichedelico rimane un po’ sospeso, forse per via dell’eccesso di spostamenti spaziali e di cambi di personaggio richiesti ad Andrea Magnelli, così come ci è sembrata irrisolta la direzione scelta per Ismene (Giulia Pes) e troppo carica di tensione muscolare l’Antigone di Veronica Franzosi. Una nota a parte meritano invece Ermanno Rovella (convincente sia nella parte di Emone che in quella del Messaggero) e soprattutto un potentissimo Ettore Distasio, che restituisce con la giusta dose di ironia, dolore e rabbia la complessità di Creonte, che da padrone assoluto si trasforma in vittima di se’ stesso, in un tornado emotivo che non smette mai di girare tra dubbio, senso di colpa e delirio di onnipotenza. Non a caso i due, Distasio e Rovella, sono i protagonisti della scena più incisiva dell’intero spettacolo, il bellissimo confronto tra Creonte ed il figlio Emone.

Qualche dubbio rimane anche in merito alla direzione interpretativa scelta dal regista. Alla naturale spigliatezza di Creonte – Distasio e della maggior parte dei personaggi interpretati da Rovella, si contrappone una direzione epico – enfatica, davvero un po’ troppo old – style, richiesta a tutti gli altri. E così, tra alti e bassi, si arriva verso il finale, che riproduce lo schema del prologo. La lenta processione di uscita del Creonte sconfitto precede la chiusura a mo’ di morale di Tiresia, ma c’è ancora spazio per un ulteriore monologo di Ismene, che abbiamo trovato meraviglioso nella qualità della scrittura, poetica e dolente, ma poco necessario nel contesto scelto da Leschiera.

Insomma, tanti pro e qualche contro per uno spettacolo che può, affinando il lavoro, decollare, ponendo l’attenzione sulla necessaria variazione di ritmo e sulla costruzione interpretativa di alcuni personaggi, affinché il raffinato impianto pensato da Leschiera possa essere valorizzato appieno.

Massimiliano Coralli

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