
Le parole, quelle dei buoni racconti, come la neve di Mogol, cadono in fondo al cuore dello spettatore, e non fanno rumore, sono offerte con cortesia, portano in dote la leggerezza evocata dalle lezioni americane di Calvino, e quelle di questo spettacolo sono esattamente così, sono cristalli di neve che si lasciano scoprire tra i pixel dello schermo, ed arredano con un fiore, o con una luna disegnata su una lavagna, questa particolare versione digitale della caverna di Platone. Si ritorna alla dimensione aedica, a qualcuno che narra, alla face-to-face society, alla trasmissione orale, alla parola che si riappropria del proprio vestito di magia, ma che sa farsi anche medicina, che sa esattamente dove arrivare, nel centro del centro dell’anima dello spettatore. C’è un mondo malato, febbricitante dall’effetto serra, e c’è la necessità di bendarlo con una narrazione che sappia farsi progetto, che non marci con lo stivale martellante dell’infodemia, ma che danzi sulle punte, che si muova con agilità, come il gessetto sulla grande lavagna presente sulla scena, geniale sovraimpressione della parola che da verbo scritto si fa testo scenico, ed il luogo, in cui avviene questa trasformazione, è il corpo degli interpreti.
Il collettivo Menotti si fa coro, fa gioco di squadra, passaggi corti, precisi, triangolazioni, assist, visione del gioco scenico, insomma queste ragazze, questi ragazzi non hanno paura di tirare il loro calcio di rigore in occasione di ogni monologo, e fanno del silenzio di una platea forzatamente vuota, una rincorsa, poi calciano la palla fonetica proprio lì, nell’angolo alto, tiro imprendibile per il portiere della quarta parete, e la sfera si insacca nella rete della nostra attenzione. Non ha paura questa ensemble di giocare con l’occhio del Ciclope, ossia l’obiettivo della telecamera, non c’è bisogno di accecarlo per uscire dalla caverna, si può utilizzarlo come una freccia digitale che colpisca lo spettatore. Si raccontano piccole grandi storie per ricordare che il mondo è sì fragile come un cristallo, ma ha ancora la luce di racconti che lo possono salvare, luci che si possono spegnere, durante la seconda guerra mondiale, per negare informazioni al nemico, luci interiori che illuminano un cammino lungo e difficile. E ogni vocalità è una irriverente e gioiosa Zazie nel metrò, è lo sguardo di un fanciullo che ci guarda, uno di quegli sguardi dal quale non puoi nasconderti, sembra lo specchio perfetto dell’anima. Ma le parole sono innervate da un’urgenza, l’urgenza che chiama acqua per spegnere l’incendio di questa casa in fiamme, di questo mondo che avvampa nella malattia di un clima malato. Ti scuotono il bavero della coscienza, ti prendono idealmente il viso tra le mani, e ti chiedono in ogni sottotesto, in ogni singola intenzione, dietro ogni battuta, “ascoltami, ti prego, ascoltami, perché ogni minuto è prezioso!”. E quando la parola non basta a raccontare, allora si comincia a cantare, con la naturalezza ed il sorriso di una canzone di Jobim, e tutti i canti sono “aguas de março fechando o verão”, sono le piogge di marzo che chiudono l’estate, sono così sottili che hanno il profumo delle cose invisibili, sono idee con le gote un po’ rosse di emozione e tenerezza. C’è qualcosa di struggente nel loro gioco, serio come il gioco evocato da Nietzsche, quello, per intenderci, che l’adulto deve saper cogliere dal bambino.
L’impressione è quella di sentire un’ininterrotta song of innocence di blakiana memoria, o la dolcezza di un lied che, nella sua melodia, è riuscito a conquistare una semplicità adamantina. E davvero il valore aggiunto di questo spettacolo è il modo spontaneo con cui si offre allo spettatore, come un pane che scrocchia invitante sotto le nostre dita, si fa familiare come può esserlo la parola amica, intima, e ci si sente seduti un po’ tutti intorno a quel tavolo presente in scena, e per una volta il tempo non è attesa, è una presenza affabile. Questo spettacolo ti rinfresca l’anima come l’acqua di fonte, scuote dal torpore, porta una festante joie de vivre, che conserva la voglia di curare il mondo, ed insieme il desiderio di trasmettere tutto questo. La magia è lì, in ogni battuta, che ha l’incanto di ogni racconto, ed è piacevole osservare quanto ogni interprete riesca a donare se stesso in ogni storia, a cedere parti di sé, come la divinità nella mistica ebraica, perché diventino mondo scenico, a mettere a disposizione la propria anima perché quella storia abbia un buon palcoscenico per raccontarsi. La chitarra, presenza costante in scena, in grado di esaltare, contrappuntare il testo scenico, lascia al posto nel finale ai REM, e davvero, nell’accomiatarsi dallo spettacolo si potrebbe prendere in prestito i versi della canzone: “Oh life, is bigger/it’s bigger than you”, verità che il palcoscenico, l’interprete conosce bene, e se la fa scoppiare dentro il cuore tutta la vita che c’è, quella che potrebbe esserci, quella che non ha il coraggio di essere, e mostra tutta la luce di questa esplosione nel prisma della laringe, che si fa luce gentile tra le labbra.
Danilo Caravà
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