
Quando si costruisce uno spettacolo dal titolo così noto, con un’eredità cinematografica da oscar (o meglio da cinque oscar), si fa una scommessa non da poco: metà delle possibilità è che la pièce viva di rendita, l’altra metà è che non regga il confronto. Tuttavia, come la storia di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” insegna, ci sono molte zone d’ombra tra uno stato e l’altro.
La trasposizione teatrale è di Dale Wasserman, basata sull’omonimo romanzo di Ken Kesey, tradotta da Giovanni Lombardo Radice e adattata da Maurizio de Giovanni. La regia è affidata alle mani di Alessandro Gassmann che, come in suoi lavori precedenti, porta sul palco un tocco cinematografico, usando videoproiezioni e musiche, a tratti forse fuori luogo, a calcare i momenti di maggior dramma.
Siamo nel 1982 nell’ospedale psichiatrico di Aversa, in un anno post Legge Basaglia. Dario (alias McMurphy, interpretato da Daniele Russo), criminale da quattro soldi, si finge pazzo per scontare la sua pena in ospedale e per evitare il carcere. Qui stringe amicizia con i malati ricoverati e si scontra con la realtà del manicomio, in particolare con la rigida Suor Lucia (Elisabetta Valgoi), l’infermiera a capo del reparto. Di giorno in giorno, Dario si rende conto che quella struttura coercitiva è inadatta e che Suor Lucia, che in realtà è una donna laica che si veste da suora senza aver preso i voti, usa la fragilità dei malati per dare sfogo alle sue frustrazioni, incapace anche lei di vivere al di fuori delle mura dell’ospedale, dove il suo potere verrebbe immancabilmente meno. Il confronto con Louise Fletcher, l’infermiera Ratched del film, è arduo: nella versione cinematografica, infatti, lei rasenta la perfidia, mettendo a dura prova i nervi anche del fruitore più distaccato.
La prima parte è forte, goliardica e agli attori viene richiesto di mantenere un ritmo altissimo, fatto di tic, battute veloci e movimenti calcolati. Impegno che non mancano di mantenere.
Tuttavia, ci sono degli elementi che destabilizzano: Dario ha uno spiccato accento napoletano (complice la produzione firmata Fondazione Teatro di Napoli?), con cui riesce ad accattivarsi la simpatia del pubblico, ma che rappresenta una soluzione rapida alla complessità del personaggio. Suor Lucia gli risponde sempre in un italiano senza cadenze, ma mortificato da un tono vocale che scende sempre sul finale, troncando le parole, costringendo gli spettatori a consultarsi sulla reciproca comprensione.
La seconda parte è un po’ più calante, si sente l’avvicinarsi della conclusione, che viene consumata velocemente, in 40 minuti che concentrano tutti i momenti di maggior drammaticità. Il finale forse non riesce a reggere quello struggente del film, che a suo vantaggio poteva contare su un uso diverso della prospettiva (primi piani, cambi di inquadratura etc.). Riesce comunque a suscitare emozioni, ma è troppo rapido per rendere credibile la scelta di Ramon/Grande Capo (Gilberto Gliozzi) di fuggire e affrontare le sue paure.
Uscendo dalla sala, però, il primo desiderio è quello di precipitarsi a recuperare il film.
Marta Zannoner
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