C’è, sicuramente, una potente intuizione in questa versione di Re Lear firmata da Frongia e Bruni, eccome, se c’è; una lampadina che si accende in testa come in un fumetto, un insight interiore in grado di trovare la soluzione più giusta. La chiave di decodifica, la stele di Rosetta shakesperiana è tutta lì, in bella mostra, quando Lear trova il più alto afflato, insieme, filosofico e spirituale, nell’affermazione con echi evangelici: “Ecco l’uomo, l’uomo in sé”, nella sua nudità fisica e civile, cognitiva. Qui si superano le colonne d’Ercole di Kant, che suona, per omofonia, come il can’t, il non posso inglese; si rompe l’apparente impenetrabilità del fenomeno, e la cosa si mostra in sé, per come è se stessa, non più per come è per gli altri. Il così è, se vi pare pirandelliano diventa un implacabile così è; si è tagliato la faccia con il rasoio occamiano, per vedersi ancora allo specchio, nella verità della pelle nuda.
Questo re Lear, magistralmente incarnato da Elio De Capitani, fa i conti con l’inganno di una vanitas vanitatis, di un gioco di specchi nella galleria di Versailles, che non può che condurre all’oblio della propria identità. Arriva, per sottrazione, in un terribile e fascinoso gioco al massacro, proprio e di chi gli sta intorno; una teologia negativa in cui egli si immola, si spoglia, per giungere all’essenziale. Questa tragedia è il più lucido schiaffo in faccia all’umanesimo confortante, all’acqua di rose, bonificato dai miasmi umani, dallo scomodo fango della carne. Il togliersi gradatamente i vestiti coincide con una regressione/processione verso la purezza del pensiero infantile, anzi del non pensiero; verso un HAL 9000 umano, di kubrickiana memoria, che non ha più paura che se ne vadano, ad una ad una, le sue unità di memoria cognitiva. I fonemi passano dalla pompa degli ottoni ai fraseggi leggeri di un flauto traverso, e si trova l’attore sempre autentico, nel singolo momento scenico, a prendere uno spunto reale di intenzione dalla battuta che va a recitare.
Che selvaggi, terribili voglia e desiderio di Dioniso ci sono in questo lavoro teatrale; del Dioniso più scomodo, massacrato e massacrante, delle Erinni in preda a una febbre di stragi irrazionali, di una rivolta definitiva, di un appello al disordine. Di gioco si ragionava prima: e, infatti, lo si crea, attraverso una corona che sembra ritagliata per il divertimento, il travestimento di un gruppo di bambini. La catasta di sedie, a mo’di pedana del trono, sembra esprimere meravigliosamente sia la lucida verità dell’assurdo di Ionesco, sia il gioco del Bambino Moreno, l’inventore dello psicodramma, che si inventa la sua verticalità metafisica verso il divino, per poi cadere rovinosamente. La plettrata sulla corda di una chitarra elettrica torna a battere l’eterna ora dell’adesso di questa storia, volutamente disturbante, ed insieme perturbante, ipnotica come certi assoli di Jimi Hendrix, con tutta la voglia di grattare la realtà del suono per farne uscire il sangue. E le lamine di metallo, eco delle tempeste fisiche e spirituali del teatro di Strehler, ma anche antico strumento, al pari del bronteion, per creare tutta la matericità dei suoni nel teatro antico, sono la lucida, metallica, implacabile superficie su cui sbatte la testa l’impossibile scioglimento razionale della vicenda.
Poi c’è Cordelia, interpretata da Viola Marietti, che cava dalla propria laringe certi fonemi asciutti, eppure, insieme, roridi. Diventa la voce essenziale, stonata rispetto alla compiacente musica di corte, e la sua scelta di non adulazione ha la forza e la spontaneità dell’avrei preferenza di no dello scrivano Bartleby melvilliano. Il Gloucester di Previati vive tutto il suo giusto tormento senza estasi, mentre cerca, in una impossibile Colono di Dover, il suo riscatto edipico. Mauro Bernardi interpreta un Edgar “ruzantemente” vivido, materico nella trasformazione nel pazzo mendicante, mentre Simone Tudda, il felino fratellastro Edmund, si gioca benissimo il suo intelletto maligno, fino a una nemesi degna di Jago. Le due sorelle villainess, Goneril e Regan, incarnate rispettivamente da Elena Ghiaurov ed Elena Russo Arman, sono vere e proprie streghe macbethiane, rivestite in una boutique del centro; iene, pronte a combattersi i resti di carne della loro preda paterna.
Umberto Terruso è un conte di Kent che cerca di giocare l’anima buona del Sezuan alle fredde latitudini inglesi, e, nel travestimento da rozzo popolano, esprime anch’egli una scomoda verità. Il duca di Cornwall di Alessandro Quattro ha la semplicità diretta dell’acqua, nel vivere il male. Il duca di Albany, Giuseppe Lanino, si scopre saggio ed implacabile attraverso gli eventi che gli accadono intorno, e partecipa con efficacia a questo gioco di disvelamento delle maschere. Mauro Lamantia è un riuscitissimo fool, screziato, in giusta misura, con un berretto fonetico a sonagli siciliano; e l’Oswald di Nicola Stravalaci, dalle bifide virtù rettiliane, si insinua come una serpe nelle pieghe del potere. Tutto lo spettacolo, insomma, regala alle sue tre ore il godimento di una boccata d’aria fresca, un vento decisamente contrario rispetto alla pigra e stantia esegesi canonica del Lear. Qui, con le ceneri d’Europa davanti e dietro le spalle, le stesse dell’Amleto di Müller, si narra tutto il travaglio di un essere, finalmente, per se stessi, un istante prima che si esaurisca il bollo di luce finale.
Danilo Caravà
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