
Saverio La Ruina il teatro lo fa, e lo fa sul serio, restituendo al verbo la pienezza del suo significato. Impasta le parole ed i gesti, ci restituisce un teatro che sa di pane e del sudore del vivere, dei fegatini ala brace di Capossela, di quella filosofia del sud dei santi che ha il sapore della Magna Grecia, dei perché che s’agitano nella mente e nel cuore di tutti gli Amleti della working class. La scena è essenziale, una tenda montata dalla protezione civile per dare una casa ai terremotati, e due esseri umani, un occidentale cristiano e un arabo, si tagliano vicendevolmente con parole con le lame affilate, per verificare shylockamente quanto il loro sangue sia uguale. Cristo si è fermato ad Eboli, ma Hegel no, e dialetticamente i due si cercano nello specchio distorcente dell’altro. Brecht qui brucia di più sulla lingua, come la’nduja calabrese, o le spezie dei piatti dell’Africa Occidentale. Qui non ci sono regole, ma solo eccezioni, a questa latitudine l’umano si confronta con se stesso, senza sconti.
Ma La Ruina ha un’intuizione meravigliosa, quella di aggiungere al testo la scrittura metateatrale, i suoi dialoghi con l’attore Chadli, la volontà contagiosa di quest’ultimo di sfuggire alla prigione del testo, di rompere spartachisticamente le catene, per aprire un dialogo, libero, sincero, svincolato, con l’autore, perché la ricerca della verità è difficile quanto un parto podalico, fa male all’anima e al cuore. Come nel paradosso della tartaruga il testo scenico, ovvero Achille, sta sempre un po’ più indietro rispetto al testo scenico, alla sua magmatica e cangiante realtà.
Non c’è alcun confortante happy end, dunque, ma lo sferzante interrogativo di uno schiaffo che brucia idealmente sulla guancia della platea tutta. E questi momenti metanarrativi, queste voci uscite dalla fonoteca di un Krapp contemporaneo, sono risolti scenicamente dal tableaux vivant di un controluce, che riporta i personaggi all’ombra della caverna di Platone, ma la possibilità di una risposta sta in quel dialogo bruciante, caustico, materico, restituito dalle casse del teatro. Due culture si confrontano, per una volta non nella comfort zone dei dibattiti intellettuali, nei salottieri, mediatici, blabla, che hanno spesso, come unica sostanza, il suono delle parole, ma nello spazio ridotto di una tenda, nella tragedia di un fine (o di un inizio) partita tutto da giocare nei piccoli, grandi momenti che animano questa strana quotidianità. E Saleh, lottando per il valore del suo ramadan, del suo digiuno, può permettersi anche di smentire l’adagio brechtiano, non sempre la pancia viene prima della morale. E poi l’11 settembre, il terrorismo islamico, le guerre, diventano una linea di confine, di identità culturale, umana, spirituale, tragicamente irriducibile, non meno fatale di quella linea rosseauiana, tracciata dal primo uomo che rivendicò la proprietà di quanto contenuto al di qua di essa. La ragione e il torto si combattono, si mischiano, mentre tra di esse cerca di interporsi disperatamente il buon senso. La separazione, la trincea che divide è una lacerante ferita, che fa arrabbiare, che fa piangere, che è difficile da reggere come quella di Filottete abbandonato su un’sola dai compagni.
Le parole di La Ruina sono gli odori di una cucina rustica, in grado di riportare immancabilmente ai propri sensi, al proprio sentire, al proprio corpo, al proprio essere lì, in forma di essere umano, seduto in platea, dedito al partecipe ascolto di un altro essere umano, che prende letteralmente a picconate la quarta parete con ogni fonema. Svegliano dal torpore oppiaceo di tutti i “già detti e “già recitati” del teatro infiocchettato. Si muove come un lupo, fiuta la platea come un lupo, e ci guarda con quella verità, quell’istinto, immediatezza degli occhi di quell’animale. Più vero del vero, mette tutta la sua anima lì, in quei pochi metri quadrati di tenda, e la musica amata dal suo personaggio, “Ricominciamo”, suona come un mantra, come una preghiera ripetuta di ricostruzione non solo materiale, ma anche morale. Se la dimensione antropologica, il teatro sociale di impegno hanno un odore, questo si sente distintamente nel teatro di La Ruina.
L’attore che interpreta Saleh, Alex Cendron, che ha sostituito l’interprete originario, Chadli, impossibilitato a partecipare, si immerge letteralmente nel suo personaggio. Lo vive proprio come la preghiera musulmana che mostra sul palcoscenico, è una poesia dolorosa, reale,corporea, un dialogo tra lui e il dio nascosto, tra lui e l’assoluto poetico, tra lui e a platea, e con l’altro personaggio. Si ha la netta sensazione che questa battaglia di un povero cristiano e di un povero musulmano, sia combattuta sì con forza e decisione, ma con le lacrime di chi si rende conto che dietro la divisa del nemico dell’eterna guerra di Piero, c’è un essere umano con lo stesso identico umore. La lacrima che sta lì, sospesa, annunciata da più fonemi, e nasconde una voglia struggente di avvicinarsi tanto da potersi abbracciare. Ma la risposta è in mano alla platea, i due attori si allontanano dalla scena perché la risoluzione del conflitto è idealmente nelle mani di ogni spettatore.
Danilo Caravà
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