Il salotto di Mariagrazia Innecco è qualcosa di molto vicino al Kammerspielhaus di Max Reinhardt, al Teatro intimo di Stoccolma gestito da Strindberg, insomma ad un teatro da camera in cui si respirano letteralmente i fiati degli interpreti, e quella sensazione continua, come una persistenza retinica, anche nella versione digitale. In questa wunderkammer, in questa stanza delle meraviglie riescono a crescere ed a svilupparsi rigogliosi i semi della buona drammaturgia e del buon teatro.
Sarà perché l’intimità si costruisce etimologicamente stando, anche solo nello sguardo e nell’ascolto, nello stesso posto, condividendo il più possibile lo spazio dell’anima che usa i soffiati, i minima moralia, per misurare le distanze. Ed in questo caso la camera oscura serve per sviluppare la pellicola di una bella drammaturgia di Buzzati, in grado di raccontare la solitudine di una donna agée con meravigliosa levità, e gioca seriamente con questa piuma vivente, spaventata dalla vita di fuori, e ci soffia sotto la vita sottile delle parole, che beckettianamente resistono e aspettano nell’ennesima fortezza Bastiani, depotenziata in forma di un interno borghese, l’arrivo dei Tartari, di un Godot, o, forse, di un serial killer.
La protagonista sembra ossessionata dal possibile sguardo dell’altro, in cui rivedere se stessa, come il Buster Keaton protagonista del cortometraggio di Beckett. Alberto Oliva, regista dello spettacolo, riesce a restituire attraverso la protagonista, Federica Sandrini, l’impressione che le mura del salotto di casa altro non siano se non la proiezione del corpo stesso di Madame Iris, della sua stessa solitaria esistenza che gioca con la mente ed i suoi tarli, o meglio con gli insetti da schiacciare con la ciabatta sul pavimento. L’abitudine è una sordina, i gesti reiterati, compulsivi, l’ossessione dalla porta da chiudere continuamente, quei vettori di movimento che insistono sulle stesse traiettorie del freudiano rocchetto di Hans, mettono in scena il gioco della paura, lo stordiscono, restituiscono tutta la grottesca tragicità di un Sisifo che, se non ha più una pietra da spostare, ha sempre delle chiavi da girare nella toppa.
Questa Pizia che si aggira tra gli arsenici ed i vecchi merletti di Capra, ed i colpi di scena hitchcockiani, oracola sul futuro in bilico tra Sofocle e Gozzano, e non si sa se l’avranno vinta gli antichi dei, od un piccolo mazzo di carte compromesso dall’umidità. Si è piacevolmente costretti a vivere la tragicomica serietà di questi piccoli movimenti, i quali hanno la dolorosa ieraticità del teatro orientale, che sono dettagliati quanto la ragnatela di didascalie di movimento della drammaturgia beckettiana, costringono il tempo a chinare il capo, a seguire quel lento ciabattare da una parte all’altra della stanza. La paura è pur sempre una novità, il brivido in grado di risvegliare, per un istante, una coscienza che sembra aver messo il pilota automatico al proprio esistere. E si continua ad avere la sensazione di trovarsi nell’interno di un’anima sola, in un territorio dove il sogno e la realtà non hanno più un confine preciso, ma, per usare l’espressione del Manifesto surrealista di Breton, si fondono in una sorta di surrealtà, in una sovrimpressione, dove, se scarseggiano le impressioni esterne, si può sempre sollecitare i sensi dall’interno, come Schopenhauer ci ricorda accade nel mondo onirico. Federica Sandrini è brava nel fare della sua recitazione i teneri fuochi fatui della solitudine di Madame Iris, la quale riesce anche a vestire l’equivoco del nulla con l’evento del qualcosa. Trova gli anni che non ha nella tenerezza agrodolce con cui piega il suo corpo, e si difende dalla bua del passare del tempo con il trucco gentile di parole che ricompongono ritualità domestiche, candidate ad essere l’ultimo ridotto di resistenza della vita. Sopravvive a se stessa, difendendo il suo fantasma, e trovando una lanterna magica di visioni.
Sono sorrisi un po’ dolorosi, quelli che suscita, come l’anziana evocata dal saggio dell’umorismo di Pirandello, che ci fa ridere a seconda della distanza da cui la guardiamo. Il regista ha il merito di capitalizzare tutto quel potenziale di Buzzati, fatto dello stessa nero umorismo kafkiano, che gioca l’assurdità dell’esistenza negli spazi angusti di una stanza, ed a questo giro ci si può immedesimare con chi farà fuori lo scarafaggio con la ciabatta, è possibile giocare all’assassino con l’assassino, e lanciare ancora una volta il rocchetto un po’ più in là, al di là del principio del piacere, trovare la verità in una canzoncina canticchiata in maniera divertita, affinché, se la tragedia nasce nietzschianamente dallo spirito della musica, possa finire con essa. Ha la mano leggera sulla tastiera dello spettacolo Oliva, e l’attrice gli risponde meravigliosamente nel restituire delle note sottili, in grado di far vivere sgorbanamente le cose altrettanto sottili dell’aria, e nel trovare il sorriso ineffabile di un motivetto, monnalisesco, attraverso il quale, nel finale, si scrolla di dosso la sua e le nostre inquietudini.
Danilo Caravà
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