
La recensione di Tiresia, una produzione Teatro Linguaggicreativi andata in scena all’Estate Sforzesca
Per seguire le parole del lo psicoterapeuta della Gestalt Fritz Perls, ci si commuove profondamente quando qualcosa di reale accade, ed è quello che succede nel caso di questo spettacolo su Tiresia. E’ davvero stupefacente trovare lo spirito della tragedia in uno spettacolo in grado di utilizzare i codici della nostra contemporaneità, e scoprire che a più di 25 secoli di distanza, può giocare la sua partita aristotelica, e sentire la promessa di una catarsi nella forma di un brivido elettrico che corre lungo la schiena.
L’intuizione geniale è quella di aver trovato in Tiresia l’everyman, ed insieme l’everywoman, di una postmoderna morality play, il corpo dell’umano immolato infinite volte, sull’altare della sua travagliata presenza mortale, capace di giocarsi la hybris, la possibilità di definirsi e, nel tempo stesso, di superare quella definizione. L’umano cerca l’oltreumano, si divincola nelle spire dell’eterno ritorno, e il suo “visus” limitato, la sua vista parziale, la miopia socratica del “so di non sapere”, fatalmente scivola verso la preveggenza, la visione dell’oltre. Indossa un paio di occhiali da optometrista, per misurare la propria capacità di far arrivare la propria visione oltre le colonne d’Ercole della chiacchiera, dei bla bla mulleriani, del linguaggio che più che parlato, parla meccanicamente chi lo pronuncia, quello con il pilota automatico, che ionesconamente svela l’assurdo del significante che esilia i significati, e riproduce costantemente se stesso.
Le parole di questo personaggio del mito pesano come se fossero pietre che cadono sul palcoscenico, sono pugni marinettiani capaci di farti barcollare, sono sillabe di un mantra buddhista giapponese, timbrate dal tamburo contemporaneo di una musica frenetica, per trovare Dioniso alla velocità di 90 bpm. E non trasuda solo la comune carne da queste parole, ma anche quella cronenberghiana digitale, che moltiplica, come in una virtuale galleria degli specchi di Versailles, l’immagine del/della protagonista. Le immagini dello schermo sono una sorta di metadone della multimedialità, di quella necessaria droga oppiacea che per molti mesi è stato un rimedio a portata di clic. La telecamera restituisce una realtà che gareggia con la realtà della presenza fisica, l’esserci in forma di pixel apre la sua sfida ontologica con il corpo, diventa una sorta di doppio artaudiano del teatro. Per scriverla alla Terenzio, nulla di ciò che umano è estraneo a questo Tiresia, essere androgino visto di volta in volta nella successione cronologica della trasformazione dei sessi, essere fatalmente non binario, o meglio oltre binario. Si candida ad essere molto più di un personaggio, è una categoria dello spirito, del’anima, è l’immagine metaforizzata di una forza della psicologia del profondo, è la mano dell’umanità che si stringe a pugno verso il cielo, come il pugno di Prometeo che sfida tutto il consesso divino.
E’ fatale che questo personaggio si confronti, come da buona tradizione tragica, con la divinità. Ma il dio, lo Zeus con cui interloquisce, è molto prossimo ad essere il nume descritto da Jung, il dio è diventato una malattia, una psicopatologia, una voce interiore, una divinità depotenziata nella forma percepibile sonora, un logos che riesce dialetticamente a sopravvivere nel confronto con la protagonista. Il dio è diventato una sorta di collodiano grillo parlante, di super io che può sparire più rapidamente della mente di hal 9000, un deus che non ha più la forza euripidea per fare la sua apparizione ex machina, ma al massimo può accontentarsi di vivere nella machina digitale, nella videocamera presente in scena. Il testo e la regia di Paolo Trotti sono gli elementi in grado di dare la stura ad un vaso di Pandora di un’essenza umana che brucia all’ascolto, sono fonemi caustici che lasciano benefiche cicatrici sull’anima. E’ anche la voce di un Dio, sottile, suadente, sinuosa e maledettamente seducente, si versa nelle orecchie della platea con la facilità con cui si versa il veleno nell’orecchio del re padre di Amleto.
L’attrice Federica Gelosa è una vera meraviglia biomeccanica, mette a disposizione il suo corpo e la sua anima per un/una Tiresia in grado di riprodurre il tao dei generi, di vincere la sterile logica aristotelica del principio di identità. Si mette a nudo digitalmente offrendoci l’immagine di un implacabile primissimo piano, che svela il velo di salsedine degli occhi, il paesaggio di un viso che lo spettatore non può fare a meno di cartografare, di esplorare, con l’ansia di conoscenza e di scoperta di un Odisseo. La musica dal vivo è creata da Bruno Dorella e Stefano Ghittoni, l’aulos della tragedia diventa una moderna chitarra in grado di cogliere i rumori di fondo cosmici di questa piece, ed il coro diventa l’impalpabile voce metafisica di elettronici effetti musicali. L’eredità che Tiresia vuole lasciare alla platea, il messaggio che graffia insieme corpo e spirito, che urla oltre lo spettro udibile con la forza visiva ed immaginale di un urlo munchiano, è quello di riconquistare una differente eternità, immortalità, la sfida tutta umana di sfuggire alla trappola del tritacarne del tempo cronologico, e di ritrovare il kairos, il tempo della qualità e non della quantità, in grado di estendere i miti di un intero istante verso l’orizzonte del “per sempre”.
Danilo Caravà
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