Recensione: “Uccelli”

uccelli
foto Gianfranco Ferraro

C’è, idealmente, una Annie Lennox, a cantare in palcoscenico la nostra voglia di angeli, o meglio, di creature con le ali. E proprio un paio di esseri alati, putti raffaelliti cresciuti in attesa di chissà quale Godot, sono in perfetto controluce, angels in Milano; e sono  pronti a introdurci alla commedia aristofanesca ambientata proprio lì dove avviene la vicenda, tra il cielo e la terra. Pisitero ed Evelpide  sono due uomini deragliati, un po’ creature simpaticamente cialtrone della suburbanità alla Jannacci, un po’ beckettiani nella loro necessaria clownerie, e con molti cromosomi della commedia dell’arte; cercano la città ideale da costruire nell’etere dei volatili, e mal gliene incoglie. Ha un bel daffare, il commediografo, a spiegare, ai novelli ateniesi cispadani della platea, che la prima libertà va scoperta all’interno di sé, e che c’è sempre qualche animale orwelliano, nella più convinta delle democrazie, che si sente più uguale degli altri. Mentre ombre della caverna platonica proiettano l’illusione di un mondo davanti al mondo, la vicenda si dipana velocemente, con un ritmo implacabile, con un metronomo che batte il prestissimo, come se l’archetto dell’interpretazione arrivasse a far fumare, letteralmente, la corda dei personaggi.

Gli interpreti non perdono un singolo appuntamento, e volano, decisamente, nel territorio della piena attenzione da parte della platea. L’intuizione della gradinata come elemento scenico personale aumenta, moltiplica e spazializza, anche nella verticalità, i giochi scenici. Si candida ad essere una riuscitissima metafora della resistibile, e parecchio brechtiana, ascesa di Pisitero verso il potere tirannico, nella città dei volatili. E’ fatale che, laddove sia presente un’opera indirizzata, decisamente e convintamente, alla polis, e, dunque, intrisa di sociale, il gesto diventi epico, la battuta si terzopersonalizzi, la maschera sia l’altro da sé presente in sé. Emilio Russo, regista e dramaturg, riesce a trovare, nella commedia aristofanesca, i semi del teatro epico: sarà perché la commedia è, per sua stessa natura, anticatartica, perciò antiaristotelica. Si ride riflettendo; ci si diverte avendo la possibilità di scegliere, razionalmente, la via più corretta di interpretazione. Qui gli dèi  si carrucolano dall’alto non per sciogliere la vicenda, ma per patteggiare la loro stessa sopravvivenza. Il potere ed i suoi eccessi sono la malattia da cui ci si chiede di vaccinarsi. Il muro non è soltanto quello costruito in aria tra cielo e terra – bizzarra struttura iconografica alla Magritte, per un coro di uccelli che ci ricorda le bombette dei travet di Golconde -,  ma è quello del settarismo, dell’incomprensione, dei gradini insociali, di potere, di supponenza che si creano tra i personaggi.

La voce della cantante, Camilla Barbarito, riesce nell’impresa fonetica della trasformazione zoomorfica, incarnando negli acuti, nei vocalizzi da regina della notte mozartiana, l’esprit de finesse strenuamente ricercato tra le ali dei volatili. Ma la libertà, chioserebbe il buon Gaber, è partecipazione, non inclusione; anche per questo motivo, in una indovinata prospettiva metateatrale, si cerca tenacemente il rapporto con la platea. La si coinvolge, la si stuzzica, la si provoca; la si invita, in ultima istanza, ad aprire bene occhi e orecchie, e cominciare ad edificare la città ideale dentro di sé. Le caratterizzazioni foneticamente vernacolari, la fisicità, generosamente mostrata come testimonianza caratteriale dei vari personaggi, la versatilità e la capacità vorticosa, e anche un po’ fregolistica, di “fare di un palcoscenico un regno”, pervadono un riuscito lavoro di costruzione, per un testo scenico che fila diritto e senza soste, al pari di un Tgv. Enrico Ballardini, in primis, nel ruolo di Pisitero, e, insieme, tutti gli altri –  Giulia D’Imperio, Nicolas Errico, Claudio Pellegrini, Maria Vittoria Scarlattei, Emilia Scatigno, Jacopo Sorbini e Chiara Tomei – intessono un meraviglioso gioco di squadra, scevro da personalismi. Il miglior elogio che si possa rendere a questa pièce è il fatto di restituire, in tutta la sua verità e corporalità, la radice stessa della commedia: il komos, ossia l’atmosfera, tutta joie de vivre, di un antico corteo al termine del simposio. Si impegnano, stillano copioso sudore gli interpreti, e ti trascinano in questa danza vorticosa e dionisiaca, divertendosi e facendo divertire. Le ali – oltre a quelle posticce, e alle fioccanti piume di una irresistibile livresse –  diventano, letteralmente, il loro corpo e la loro laringe.

Danilo Caravà

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