
Fiori del male sbocciano nei giardini della borghesia, quella piccola, invisibile, silenziosa, che compone, vertebra sociale dopo vertebra sociale, la spina dorsale della società. E forse gli dei antichi lo ignorano, ma ci sono tragedie di uomini ridicoli che si consumano nei paesaggi urbani, nei prosceni di un tinello, tra una pasta ed un cannolo, come questa.
Il protagonista, Giovanni Vivaldi, forse già nel nome destinato ad una straordinaria normalità, uscito dalla penna di Cerami, e immortalato nel cinematografico soprabito sdrucito di Alberto Sordi, si lascia scrivere da Talia e Melpomene, si destreggia abilmente tra commedia e tragedia, e si concede anche un lento sulla musica di Endrigo “Io che amo solo te”, paradossale dichiarazione di intenti di un borghese piccolo piccolo che vorrebbe starsene lontano dalla hybris, e vivere nel confine dei suoi limiti. Tuttavia il dramma lo viene a cercare, gli esplode nelle orecchie nella forma di un colpo di pistola, lasciandogli giusto il tempo di consumare qualche siparietto domestico, e la pantomima dell’adesione alla massoneria.
Massimo Dapporto, usa abilmente una vocalità vissuta, e scartavetra i fonemi su una laringe calda e fumante, come il catrame appena versato sulla strada, e si prepara a fare ad essi la punta perché diventino terribile arma di rivalsa. Nella sua gola esplodono le Erinni, e il suo sguardo lampeggia di gustata vendetta al pari di un Tito Andronico. La sua qualità migliore in questo spettacolo è quella di non lasciarsi imprigionare in uno stilema, nella cornice pre-confezionata di un personaggio, scava meglio di un caterpillar nel suoi sottotesti, e trova carne pulsante, vibrante, e lampi di struggente poesia elegiaca, quando si lascia abitare dal rauco urlo ecubeo facendo agitare i fiori bianchi portati sulla tomba del figlio deceduto, di un Astianatte cresciuto, che ha fatto in tempo a studiare ragioneria prima che il fato lo facesse incontrare con un proiettile vagante. La sua postura, leggermente incurvata da un peso metafisico della vita, arricchisce come prezioso condimento la sua interpretazione. Dimostra, battuta dopo battuta che la tragedia contemporanea può esistere, seppur bagnata e screziata di grottesco, indossa un’armatura ridicola che non è fatta più di piastre, ma di camice inamidate, bretelle ed ombrelli scuri da aprire dopo essere stati in questura per il riconoscimento, per non piangere da soli. E’ quell’impasto di normalità e straordinarietà a diventare la ricetta unica ed inimitabile di questo spettacolo, dove una tortura implacabile, spietata, si mescola ad un cruciverba, borghesissimo rito di passatempo. Rappresenta la periferia dell’eroe che si scrolla violentemente di dosso la sua passività, con una ribellione assoluta, tuttavia gli si rovescerà addosso nuovamente nel riuscito finale, dove a questo mancato re, che ha perso anche la sua lady, marcerà contro il bosco di Birnan, nella forma di crudeli e dolorosi inutili anni di solitario pensionamento.
La moglie, interpretata da un’efficace Susanna Marcomeni, passa con agilità e destrezza dalla casalinghitudine, grottesca suo malgrado, all’afasia e la fissità di un dolore che spezza l’anima più del corpo. Il figlio, Matteo Francomano, esprime nei tratti morbidi e nella voce sorridente, un Isacco che va al concorso con l’inconsapevolezza dell’agnello sacrificale. Il capoufficio, Roberto D’Alessandro, con una vocalità gustosamente arrotata nella calata meridionale, incarna ottimamente il burocrate del “Let it be”, che, tra una fetta e l’altra di prosciutto, vive e lascia morire. Ed infine il rapinatore che ha esploso il fatale proiettile, Federico Rubino, costruisce validamente una recitazione tutta fatta di gesti e posture che inizialmente sono quelle di un guascone di periferia, di certi personaggi pasoliniani, per poi diventare quelle di un corpo caravaggesco, in cui la carne riesce a gridare prima della voce. La scenografia è il giusto detonatore di questa piece, e si esprime in tre interni borghesi, tre isole, la casa, l’ufficio ed il capanno di pesca, in cui il protagonista sbatte come un’elettrica pallina del flipper, animato dall’elettricità degli eventi al pari di una rana galvanica. Negli spazi, nei chiaroscuri, nei tagli di luce tra un luogo e l’altro si consumano momenti verità, ed in quella terra il regista, Fabrizio Coniglio, trasforma il protagonista in una sorta di Diogene, in cerca del vero uomo. prima di tutto in se stesso. Ed ha il pregio di rendere la banalità del quotidiano un testo scenico che non perde un colpo, senza concedere un istante alla noia. Crea fotogrammi teatrali in grado di imprimersi sulla retina, tableaux vivant lividi in grado di capitalizzare la forza drammatica delle vicende raccontate.
Forse anche questo borghese piccolo piccolo porta in sé i ruderi del poeta, come il notaio evocato da Flaubert, ma sono vestigia monumentali, resti di cattedrali vertiginose crollate sotto il peso di un esistenza vissuta, almeno in superficie, al cinque per cento. E per il pubblico è piacevole accorgersi che anche la classe media sa indossare i coturni e camminarci efficacemente, come dimostra il generoso capitale di applausi tributato agli interpreti.
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