
La terza vegliatrice del Marinaio di Pessoa ricorda che le parole, appena dette, resteranno fuori di sé, non si sa dove, rigide e fatali. E questo spettacolo sembra assumere questo aforisma come un assioma, sottolineare, ampliare quel ritardo fatale e intrinseco del doppiaggio tra pensiero e parola. Il fonema è già un’alterità, e allora la decisione del regista/attore Trifirò è quella di evidenziare questo altro da sé, che ha già una vita propria, un proprio cogito cartesiano in grado di regalargli una sorta di coscienza linguistica. Dunque questo Krapp, un po’ roditore ed un po’architetto, lascia schiacciato il pulsante “play” per tutto il tempo, lascia scorrere la fonoteca beniana, ascolta il suo ascoltare, e mette alla prova la platea con questo trattamento Ludovico in cui la vocalità apre bene gli occhi allo spettatore, al pari della pinzette che trattengono le palpebre di Alex.
Un’altra metamorfosi kafkiana, e da un testo di questo autore praghese è tratta la drammaturgia, si compie sul palcoscenico. Il corpo dell’attore è letteralmente spinto in avanti dalle parole, sembra diventarne la carnale punteggiatura, si muove in una scenografia che volutamente ha l’urgenza di evocare la tana, una realtà nascosta, velata, cunicolare. Questo personaggio compie una sorta di fantascientifico viaggio allucinante nel corpo delle sue parole e, ancora prima, dei suoi pensieri. Poi, a un tratto, ecco la rivelazione, l’insight, l’intuizione in grado di risolvere l’equazione fonetica, la sensazione di trovarsi a osservare, dalla posizione della platea, l’interno di una coscienza, un paesaggio mentale, perturbante e disturbante, il ronzio continuo di pensieri, l’accendersi e spegnersi di collegamenti neurali. Per questo roditore non ci saranno i fiori di Algernon, ma il travaglio, che diventa un vero e proprio parto difficile, podalico, di una coscienza che fatica a riconoscersi, e si trincera dietro il ridotto di resistenza della parola.
Ci si trova di fronte ad un lockdown spirituale, a un empasse gnoseologica, l’esserci, nell’individuarsi, si trincera fatalmente e cartesianamente nella propria tana. Ecco allora che tutti i conti tornano, e la parola scava dentro se stessa fino a farsi sanguinare le unghie, cerca un’impossibile redenzione, cerca un taglio nella tela scenografica di Fontana in cui potersi salvare da se stessa. E il nemico che si sente è ancora e sempre lo sdoppiamento del proprio sé, la scoperta di un altro che vive ancora nella propria tana delle percezioni. Si realizza la messa in scena di un realismo psicologico che le orecchie faticano a masticare, come i ragazzi della Salò di Pasolini che si ritrovano i chiodi nella polenta che viene loro data. Il tempo fatalmente si allunga, visto che non è più quello cronologico, ma è quello interiore che si muove su un impossibile nastro di Moebius, dove il prima e il dopo convivono sulla stessa superficie, e l’adesso sta tutto nella percezione dello spettatore, percezione che si allunga, fatalmente, come gli orologi di Dalì. Si getta uno sguardo in camera fissa su ciò che si nasconde dietro a quello che non si può vedere, e fatalmente appare come una visione, come un muoversi in senso inverso, dall’interno verso i sensi, come in un sogno. Lo spettatore si sente una sorta di Waldemar di Poe, mesmerizzato nel per sempre di un adesso che stenta a passare, di un tic che fatica a diventare un tac. La voce si antropomorfizza e il corpo dell’interprete di piega in una sorta di grafema, di successione di lettere. Esita di fronte al velo di Maya, e ritorna puntualmente al punto di partenza, l’uroburo si morde la coda, e la consapevolezza di sé non può che muoversi al di qua della circonferenza della propria esistenza. Esistere, diceva Cioran, è perdere terreno, e, nel tentativo di non perderne ulteriormente, questa creatura si crea una propria tana, un proprio labirinto, in cui scrivere ossessivamente il proprio pensiero, al pari di un Jack Torrance che batte pervicacemente sulla propria tastiera la frase “II mattino ha l’oro in bocca”. Dunque ciò che rimane è tutto lo sgomento, la nudità estrema di una mente che cerca di non impazzire, riproducendo teatralmente il proprio rischio di perdersi, di svanire a se stessa, come la mente del computer Hal, diventando la propria Arianna, e offrendo a se stessa il filo di una serie di fonemi.
Non c’è spettacolo che più di questo non faccia percepire quanto heideggerianamente sia stretto il concetto di tempo a quello del nostro esserci, obbligando la platea a fare i conti con la propria presenza, con il rumore di fondo di ogni universo interiore. De Sade sorride sornione di fronte a questa metafisica tortura, alla frusta fatta di un tempo sospeso. La presa di coscienza, la vita che cerca di vivere al di là del montaliano cinque per cento, entra decisamente in una fase di doglie, di fastidio che tocca quel qualcosa che si insegue, sempre nella propria tana, il riflesso del proprio più profondo sé. E per ultimo sembra quasi di sentire la risata sinistra, lo sghignazzare sommesso del Kafka che leggeva la sua letteratura ad un gruppo ristretto di conoscenti, e che, prima di Beckett, aveva trovato quanto fosse assurdamente comico l’incedere clownesco, sui trampolati coturni della tragedia umana.
Danilo Caravà
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