Recensione: “Tiresias”

tiresias
Foto Claudia Paiewsky

Lasciarti senza parole. Questa la prima caratteristica di “Tiresias” di Kae Tempest con Gabriele Portoghese e Giorgina Pi in regia. Una conferma che arriva anche dal lunghissimo applauso attribuitogli dalla sala Fassbinder del Teatro Elfo Puccini.

Lo spettacolo segue i passi del mito e li avvicina a noi: Tiresia – che ci viene presentat* inizialmente come giovane ragazzo in lotta con sé stesso e con gli altri – incontra i due serpenti e, come nel mito, la loro uccisione rievocano prima la sua controparte femminile, poi quella maschile. Ormai all’alba della vecchiaia, quando la vita risulta ormai dettata e niente sembra cambiare, Zeus lo chiama a sé per aiutarlo a risolvere una controversia tra il dio e la sua compagna Era, che lo priverà dell’uso degli occhi. Zeus, per compensare il danno subito, gli darà il potere di vedere oltre: lo rende così il veggente che sa, oltre i limiti dello spazio e del tempo.
“Tiresias” porta tra noi questo personaggio – sempre presente, raramente protagonista – e lo fa camminare sulla linea di tutto ciò che un umano è o può essere, al di sopra di ciò che gli è stato dato il permesso di diventare.
Dona veramente spessore a questo personaggio, lo rende delicatamente fragile, maestosamente consapevole. Intimo.
Tiresia(s) ci chiede di ascoltare e nutrirci della sua stessa capacità di osservare e sentire la realtà.

Nato dal Progetto Bluemotion, porta in scena il testo di Kae Tempest con la vibrante – mai leziosa, vicina, calda eppure spietata – traduzione di Riccardo Duranti. La regia di Giorgina Pi ci regala un adattamento che veramente sa ascoltare ciò che ci circonda e ci abita dentro: oltre il mito, la vicenda vive di una sua spontanea e umana ragione.
E protagonista in scena vede Gabriele Portoghese, che riesce a spalancare porte di sentimenti più ampi di un corpo con un semplice soffio. Un sussurro.
E a chiuderle, lasciando agli spettatori, però, il privilegio di uno spiraglio, per osservare con calma le infinite possibilità di un’identità, che nei suoi passaggi (di genere, di età) è sempre coerente: che non vive di moltitudini differenti, ma che è di per sè un caleidoscopio. Che vive tra due (detti tali) opposti e nel loro incrocio si completa.
E questo con un lieve gesto di mano, un cambio di tono, un passo. Incredibile.

Lo spettacolo vive di ritmo – sempre puntale, mai scontato – che si sprigiona in ogni aspetto della scena: dalla dimensione sonora del Collettivo Angelo Mai, ai bagliori ad opera di Maria Vittoria Tessitore sino agli echi di Vasilis Dramountanis e all’accompagnamento di Benedetta Boggio. Le musiche – anche per chi non riesce a riconoscere tutte le tracce – non sono accompagnamento ma parte del personaggio. Le luci di Andrea Gallo sembrano farsi invece coro, risuonando a ritmo della vita emotiva di Tiresias: lo seguono, consolalo, si annientano e gioiscono con lui. A tratti sembrano umane, vive.

“Tiresias” riesce a parlare del genere, dell’emarginazione, della sessualità, ma finalmente nell’ottica della realtà, senza mai risultare didascalico, ma condividendo il suo Io con noi, tramite la spiazzante semplicità delle immagini e delle loro metafore.
ll tema del sapere e del capire passa così dall’universale all’intimo: Tiresias non ha bisogno di spiegarci chi è, perchè, semplicemente, lo sa benissimo. E presentando il semplice postulato della sua identità, lo capiamo anche noi.

Irene Raschellà

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