Intervista a Enrico Castellani

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La compagnia Babilonia Teatri arriva a Milano con un nuovo spettacolo, Pedigree, in scena al Teatro Leonardo – MTM dal 26 al 28 ottobre 2017.
Lo spettacolo, già presentato a Primavera dei Teatri 2017 e al Festival delle Colline Torinesi, è una riflessione sulle difficoltà di una nuova generazione alle prese con genitori biologici e genitori di fatto, con nuove problematiche di identità e di coscienza. Un progetto denso le cui genealogia e implicazioni ci ha raccontato Enrico Castellani, autore e interprete dello spettacolo

La parola nasce sempre da un evento e poi si trasforma in tale. Da dove nasce questo ultimo progetto, di cosa è figlio Pedigree?
Pedigree ha come punto di partenza l’invito rivoltoci lo scorso anno da Rodolfo Di Giammarco di presentare qualcosa all’interno della sua rassegna “Garofano Verde – Scenari di Teatro Omosessuale” . In realtà, lo spettacolo è attinente al tema in modo molto relativo nel senso che il punto di partenza, di uno snodo che non è per niente unitario, è la storia di un ragazzo con due madri, figlio di una coppia omogenitoriale. Lo spettacolo è una sorta di lunga lettera che il ragazzo rivolge al donatore di sperma che in qualche modo è il suo padre biologico.
Abbiamo deciso di affrontare il tema perché conosciamo delle persone intorno a noi che hanno fatto questa scelta ed è una materia che noi sentiamo molto vicina, intorno alla quale riflettiamo. Lo spettacolo poi in realtà parla forse non solo di questo ma anche delle relazioni fra padri e figli. È una materia assai più ampia.

Perché questo titolo?
Nell’immaginario collettivo il pedigree è legato alla sfera zoologica. Il titolo, in qualche modo, porta con sé una provocazione che poi all’interno dello spettacolo viene riproposta perché il ragazzo, a un certo punto, si chiede come le madri abbiano scelto il seme da impiantare per la sua nascita. È una domanda che ci si fa, se questo seme va scelto, come e quali sono le caratteristiche che debba avere affinché possa essere congeniale impiantarlo. E quindi abbiamo usato il termine come metafora atta a significare il seme che viene impiantato.

Da alcuni lo spettacolo è stato definito come una sorta di J’accuse rivolto a chi non considera la diversità come una possibilità. Ma che cosa è diverso?
In realtà non è così. Credo che lo spettacolo metta in bocca a una stessa persona punti di vista anche lontani tra di loro con l’intento di fare emergere una serie di contraddizioni. Forse quel che viene fuori sta più nel fatto che noi crediamo che vi siano dei diritti che sono acquisiti, forse più sulla carta che nei fatti, ma che invece dovrebbe essere più fattivi.
Rispetto a una materia di questo tipo, quale quella della genitorialità di fatto, non è possibile dividere tutto in bianco e nero, in pro e contro. La vita è più ricca e complessa e non può esser ripartita in ciò che ci piace e non, in pollice alto e verso. Questa dualità radicale, che torna molto spesso nelle nostre vite oggi, pare un po’ riduttiva perché in realtà sono molti gli elementi che entrano in gioco. Ci sono gli elementi delle singole persone, ci sono il contesto sociale in cui viviamo e infiniti elementi.

Diversità come molteplicità, quindi?
Sì, questo si può dire. Lo spettacolo è una rivendicazione, piuttosto che un j’accuse, della possibilità di creare famiglie di tipo diverso, ma non soltanto. Allo stesso tempo, è un non dare per scontato che le difficoltà e le crisi non riguardino solo una famiglia tradizionale ma qualsiasi tipo di famiglia.

L’incipit di “inri”, tratto dal vostro spettacolo precedente The end recita “c’era una volta in cui i bambini nascevano sotto i cavoli, una volta in cui i bambini li portava la cicogna, a quei tempi la mamma e il papà non facevano l’amore, non si spogliavano, non si guardavano, non si toccavano, per divina provvidenza concepivano, poi dopo nove mesi, arrivava la cicogna […]”. Sebbene poi il deflusso del testo prenda altre vie, l’inizio pare essere proprio un calzante ossimoro o se vogliamo un’antifona a Pedigree.
Sì, in qualche modo lo è. Sono dei temi su cui riflettiamo da molto tempo e che tornano, incrociandosi, nei diversi spettacoli. Di sicuro il pezzo che citi continua a riflettere su come i tempi, per certi aspetti, siano cambiati e non credo che la questione stia nel decidere e nel definire che si stava meglio quando si stava peggio oppure no. Piuttosto, il punto sta nel fare i conti con quello che siamo oggi stando però all’interno delle domande, non fuggendovi. Non esiste necessariamente una risposta, ognuno avrà la sua, o forse no, però meglio avere dei dubbi che certezze monolitiche che tante volte poi fanno crepe da tutte le parte.

Vorresti dare delle indicazioni, delle cifre da cogliere a quanti verranno a vedere lo spettacolo nei prossimi giorni?
In realtà lo spettacolo procede attraverso la forma narrativa cui vengono alternate scene esclusivamente di immagine che tante volte fanno da contraltare e sono in contrasto, che evocano tutto ciò che le parole non dicono. Probabilmente il senso compiuto del lavoro sta nella giustapposizione di queste parole e di queste immagini. Quello che il teatro come sempre da è l’insinuarsi di una parola scritta che vive all’interno di un contesto che solo la scena crea.

intervista di Alessandra Cutillo

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