“L’anarchico non è fotogenico” è il primo capitolo della trilogia “Tutto è bene quel che finisce”.
Un tavolo, una sedia, due cappelli da cow boy e i due personaggi illuminati da una luce bianca.
Qualche gesto funzionale a testare il “sincrono fisico” dei due e da qui comincia un’ora di formulazioni mono-tono di battute circostanziate unite tra loro da tenui collegamenti logici o semantici.
Potrebbe essere una discussione da bar…anzi da “Saloon” se non fosse per le straordinarie perle che compongono il fiume di dialoghi esposti con flemma indolente.
Non servono i gesti sincronizzati, svogliati ed avulsi a dare tono al testo.
Occorre riportare il significato del testo allo stato essenziale, celebrando i concetti per quanto la parola li possa rappresentare; per ciò che sono in realtà senza aggiunta di colore.
“Che differenza c’è tra teatro e spettacolo” si chiede il cowboy dal foulard giallo?
“Per fare teatro”, risponde il cowboy dal foulard nero, “bastano uno o due coglioni che parlano. Per uno spettacolo occorrono TIR, facchini ed un certo numero di dipendenti a tempo indeterminato. Noi facciamo teatro”
Si parte con un quesito: cosa potremmo far morire senza poi sentirne la mancanza?
Dice il primo cowboy: “Potrebbe morire il:…volete l’antipasto, il primo, il secondo? Quest’ordine di cose potrebbe morire” Risponde l’altro: “Si anche se l’idea che mi mettano tutto in un piatto…” e da qui il (purtroppo) piccolo manipolo di spettatori viene chiamato al massimo dell’attenzione; occorre un discreto sforzo per seguire i surreali dialoghi dei due personaggi. Appena il tempo di carpire un concetto, elaborarlo, cercare di introiettarlo che immediatamente ne arriva un altro senza soluzione di continuità.
Fino al termine quando i “due personaggini” nel primo ed ultimo contesto dinamico (la lampada che dondola mossa dal vento) si congedano con la considerazione finale: “È assolutamente necessario morire, perché , finché siamo vivi, manchiamo di senso”.
Faticoso e divertente.
Roberto De Marchi
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