Recensione: “Aspra”

Aspra
foto Luigi Guaineri

Il linguaggio può sabotarsi, può provocarsi dei disturbi, può ferire la pelle del significante fino a farla sanguinare di significati. La bocca è ostacolata nel suo farsi fonema, è quel sasso lacaniano, quei chiodi nascosti nella polenta dei ragazzi pasoliniani di Salò, che rendono il dire un atto di dolore, una fatica cha sfianca l’anima. Tutto questo accade in Aspra (dal palco del Teatro della Contraddizione), un video sperimentale che porta già nel titolo un’ipoteca percettiva, in cui i suoni, le parole e le immagini sono la nuova carne digitale di cronenberghiana memoria, bruciano volutamente sulla lingua dello spettatore, come arance meccaniche, gli regalano cinebrividi e piacevoli privazioni trasmesse al basso intestino. Tre interpreti, due donne, Francesca Frigoli e Chiara Verzola, ed un uomo, Daniele Fedeli, creano sulla scena l’ideale corpo artaudiano inorganico, si svuotano del di dentro, si liberano delle scorie fonetiche, e si riempiono di pixel per essere offerti al rito della visione multimediale. Si continua a credere al deus ex macchina, ma soprattutto alla sua carne, che vive nelle inquadrature insistite, nei dettagli, negli sguardi in macchina, nei voluti squarci, tagli nella quarta parete digitale.

La dialettica del servo e del padrone abbandona la pagina di Hegel ed abita idealmente la carne di Von Masoch, e la crudeltà è un imperativo categorico di un Kant volutamente deragliato nell’irrazionale. Questi esseri strisciano come la lumaca di Kurt sulla lama di un rasoio che qualche distratto Occam ha scordato di chiudere, in bilico sulla follia, e con i nervi definitivamente cortocircuitati, d’altronde, come ricorda uno dei numi tutelati di questo spettacolo, Burroughs, lo psicotico è uno che ha scoperto come vanno le cose. L’impressione, assaggiando queste immagine e queste parole, è quella di avere sulla forchetta della percezione audiovisiva il pasto nudo, la verità fredda delle policromatiche inquadrature fassbinderiane. Pasolini è felicemente straniato nei frame, nelle inquadrature di un anime, in cui le parole giocano con l’iperbole, come le ginnaste con il nastro colorato.

I personaggi, o meglio i frammenti del loro esplodere recitativamente, dichiarano brechtianamente la loro alterità, si terzopersonalizzano al microfono, si spogliano ben oltre la carne, e sono volontà pura, distillata, piacere impiacentito, le ultime visioni di un Nietzsche a Torino sulla strada della follia definitiva, gli ultimi rauchi gridi di uno Zarathustra che predica la perdizione, la strada di una scomoda teologia negativa, che brucia il suo stesso bruciare. L’accompagnamento musicale, a cura di Shari DeLorian, è un vero e proprio stimolante somatico e psichico, e l’archetto di uno strumento a corda sfrega direttamente sui nervi scoperti del non-detto, si fa rumore metallico, è come la pillola dell’Alice dei Jefferson Airplane ti fa grande o piccolo, ma, a differenza di quella di mamma, ti farà sicuramente un effetto psicotropo. Disturbante è la Evita Peron di Copì, che rabbiosamente divora idealmente il patè della bourgeoisie, il fegato dei benpensanti, con lo stesso compiaciuto ghigno di un Lecter. Sono schiaffi alla vita, sono pugni al senso comune, queste visioni digitali, curano omeopaticamente il tossico esistenziale con il tossico della scena, sono la bomba messa dentro la pipa di Magritte perché dopo l’esplosione si capisca definitivamente che questa non è una pipa, che le parole sono il crudele equivoco, sono le lamette stesse che feriscono dal di dentro il cavo orale, traducono ed insieme tradiscono un’anima che cerca nel linguaggio del corpo un modo per scrollarselo di dosso, per consumarlo fino all’ultimo lembo. Quando l’immagine va volutamente in saturazione cromatica, e non può trovare requie la visione dello spettatore nell’oppiacea riconoscibilità delle forme note, allora si guarda dritto nell’abisso, in quel manque, in quello spazio che grida munchianamente l’insensato, l’informe, l’estremo momento di lucida follia, di verità burroughsiana poco prima che l’evento sonoro-vivo sia accuratamente masticato dalla dentatura del “significare qualcosa”, per poi essere inghiottito nell’oblio.

Il regista Isgrò ha il merito di far immergere lo spettatore nell’acqua digitale del panta rei, ma in quello scorrere gli istanti liquidi si moltiplicano nella percezione, si allargano oltre i loro naturali confini, e ci esplodono addosso. La parola si consuma fino all’ultimo, oltre il beckettiano finale di partita, rantola il suo precario essere ad un microfono abbandonato sul tavolato della scena, apre una sfida crudele e necessaria con i corpi degli interpreti, entrambi danzano lascivamente come una Salomè, sapendo che a chiederlo è lo sguardo, fatalmente voyeuristico, di chi sta da questa parte dello schermo, e vede lo spettacolo chiuso dietro quel diaframma di vetro, come se fosse un peep show antropologico dove il tragico osceno non è più costituito dai giochi della carne, ma è rappresentato dall’anima, che si ferisce per sentirsi viva, per essere presente a se stessa ed agli altri, per sfuggire alla cattività dell’esistenza.

Danilo Caravà

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