Recensione: “Boiler room – Generazione Y”

boiler room

Pensa libero chi saresti, pensaci alla luce delle ultime vicende storiche ma non solo.

Pensaci come fossi all’epoca della tua infanzia, soprattutto se hai più di 50 anni.

Pensa che cosa avresti voluto essere, pensa alle certezze che ti hanno animato in tempi privi di crisi di qualsivoglia natura.

Pensa alla libertà e alla stabilità insieme; pensa come e quando queste abbiano avuto un ruolo nel tuo quotidiano.

Pensa al modo in cui pensi al futuro, pensa a cosa sia per te il piacere e la sofferenza. Pensaci e rispondi. Rispondi come se fossi noi, noi della ‘Me me me generation’ che partendo dall’io finiamo sempre per sfociare nel noi collettivo.

Pensaci, oppure non farlo e balla. Ma non ti vergogni di ballare?

Boiler room – generazione y, dell’attrice e autrice di origine serba Ksenija Martinovic, è una riflessione drammatica ma rassicurante su una generazione di passaggio, riversata in una società di massa inesistente.

Partendo dalle vicende della dj palestinese Sama’ Abdulhadi, arrestata nel mezzo di una boiler a Nabi Musa per profanazione di siti e simboli religiosi, si interroga su qual possa essere il punto di rottura che la musica instaura in un luogo di frattura, che sia guerra, confine, solitudine, dolore.

È questo il prologo che sorregge le convulsioni portate in scena da Boiler room- Generazione y, a La Cavallerizza di MTM nell’ambito della rassegna HORS.

Un riflessione che crea parallelismi semantici e ontologici tra una generazione e un genere, quello musicale della techno.

Un legame intessuto su un sentire ancestrale che muove i singoli a ricadere in un ritmo convulso cui il corpo non può sottrarsi (proprio come al consumo), mischiandosi in una comunanza che come la techno non accomuna se non nella forma.

Federica D’Angelo, Margherita Varricchio, Matteo Prosperi, Alessio Genchi e Ksenija Martinović sono i performer del nuovo “meta-verso-teatro” deformato e deformante che mette mette in scena il mondo attuale a ritmo di macchina.

Si muovono con rumore ma è solo techno con sentimenti umani.

È tutto finto, ci ricordano. Retrospettive pretenziose imbevute in xanax tutti propri in cui non si esiste, quindi si è altrove.

Il ritmo della scena è un crescendo assordante che ci ricorda che serve non pensare. Siamo in terra, in un delirio ululante, danzanti con movenze meccaniche e non più primordiali.

È l’edonismo depressivo che non vuol farci provare null’altro al di fuori del piacere stesso.

Uno spettacolo che sta in piedi prevalentemente sul sound & light design (Andrea Peluso, Emanuele Pertoldi e Giulia Mandicardo) e video (Sonia Veronelli) senza i quali verrebbe meno la denuncia dell’accesso al consumo ininterrotto “con utilizzo minimo di risorse energetiche, spesso legate al movimento di un solo click”.

Soffriamo, non siamo liberi, la guerra ci circonda dai tempi della scuola dell’infanzia e la sentiamo intorno, non solo ora. Ci dimeniamo, siamo orrendi nel nostro arrancare come generazione derelitta di transizione verso un futuro che non ci azzardiamo a immaginare perché non ci sentiamo in diritto di farne parte. Ricordiamo che la sofferenza è nel mondo e noi non eravamo pronti ad affrontarla, mentre ora non siamo in grado di affrontarla perché sfugge alla competenza del click.

“Siamo veramente parte di qualcosa?”, chiede la Martinović.

Quale che sia la risposta, balliamo.

Alessandra Cutillo

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