Ascoltare le parole di Testori fa sempre un certo effetto: è come vedere un quadro della Crocifissione potente, definitivo. Si avverte subito l’urgenza di una parola che si fa carne, con l’odore di un assoluto, un universale che, decisamente, rifiuta gli orpelli intellettuali, razionalistici della metafisica. Sembra che, idealmente, dica: “muoia Platone, con tutti i filistei”. Soffiantini, poi, ne è l’interprete ideale: ha quegli stessi occhi che, come due biglie di luce, sono scavati nel teschio, mentre il viso incarna la potenza di una maschera antica, di un cuoio vivo, che parla quanto può parlare un paesaggio in qualche periferia, trasudante vita e ma. Parte seduto in platea, tra il pubblico, per fugare ogni dubbio: non si tratta di una lezione ex cathedra, bensì di normale conversazione, una di quelle che Testori sapeva far nascere in qualunque potenziale agorà del ventesimo secolo. Con la sua immancabile sciarpa rossa, indossata come una stola, e con il suo patrimonio di gesti, e quelle pause così necessarie, pesanti come pietre, ieratiche.
Quei punti di sospensione in cui il pensiero si fa la punta, diventando affilato, ungulato, in grado di graffiare il senso comune. Tutte le confessioni dell’autore sono la più limpida testimonianza di una vita artistica vissuta fino all’ultima goccia, attraverso la realtà; anche la sua attività di critico d’arte è legata a una irrinunciabile sindrome di Stendhal, a un dérèglement sensoriel;sensazione, percezione panica che fa vibrare l’essere, fin dal fondamento della carne. La scenografia traduce quella vita raminga, nomadica, senza una casa fissa, dello scrittore. Numerose stoviglie sono sparse sul palcoscenico, risultato di una sorta di terremoto esistenziale, mentre il protagonista, gradatamente, si muove in questa realtà interiore psicanalitica, nel suo stesso inconscio, per trovare, riscoprire il suo personalissimo ubi consistam. Soffiantini alterna momenti terzopersonalizzati, di chiosa e commenti (evocando Luca Doninelli, interlocutore di Testori), a quelli di una vivida immedesimazione, dove sembra davvero di vedere, in controluce, questo scomodo profeta di una letteratura quasi spinoziana, del deus sive natura: la realtà come testimonianza di una cristologica teologia. Scomodo per tutto l’arco costituzionale della critica, sempre coerente con il proprio pensiero, rifiuta la parola metafisica, quella che vuole giocare con i simulacri iperuranici, con le idee vuote e sterili. Al pari di Antistene, vede il cavallo e non la cavallinità: percepisce tutta la potenza filosofica, etica, spirituale della cosa concreta, creando una struggente scrittura panteistica. Mai un’anima è stata più fiammeggiante, e ha dato più potente testimonianza di sé attraverso la scrittura. E questo, anche il regista Paolo Bignamini lo sa bene, dando all’interprete la carica sciamanica per essere posseduto da quelle parole; per non limitarsi a recitarle, ma per viverle pienamente, incarnarle. Risuona, Soffiantini, vibra, letteralmente. E, in alcuni soffiati, trova piccoli diamanti in forma di fonemi, frutto certo di una decantazione, di una barricatura interiore. Questo Re Lear delle periferie, della provincia tagliata dai treni delle Nord, ruggisce delicatamente, si affretta lentamente, vive le contraddizioni, senza alcuna fretta di sciogliersi in una facile e prevedibile sintesi.
Anche la sua definizione di teatro è illuminante, e rivivifica quella aristotelica: la confessione aperta , in cerca di un perdono, di un riscatto, di un sigillo di umanità, da ottenere dalla carne ed anima della platea. Parla di ciò che gli piace; legge Gadda, Manzoni, Cechov, con una forza irresistibile, trasmettendo non solo quelle parole, ma i fuochi che riescono accendere in lui, e negli spettatori tutti. Racconta le sue crisi, la sua ispirazione, che arriva improvvisa: non nella turris eburnea del proprio scrittoio, non nella camera caritatis del proprio isolamento domestico, ma in mezzo alla gente, sui treni, in tram, nei bar. Deve sporcarsi di vita, deve odorare di vita, e nascere in mezzo ad essa, questa scrittura unica e irripetibile. Che meraviglioso insegnante, sarebbe stato Testori. Molto al di là degli attimi fuggenti, perché lui li metteva in fila uno dopo l’altro, dal più alto al più basso, per creare una storia, insieme, umana e divina: in definitiva, cristologica. La sua voce, che si ascolta nel finale dello spettacolo, non è semplice espressione di una struggente nostalgia. E’ urgenza di raccogliere l’eredità, scomoda e coerente, di chi non giocava a fare l’artista , ma lo era nelle viscere, in maniera caravaggesca.
Danilo Caravà
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