Recensione: “Coriolano”

coriolano

IL POTERE E’ PIU’ FREDDO DELLA MORTE

La resistibile ascesa del generale Caio Marzio è raccontata, in questa riduzione teatrale in scena al Teatro Fontana firmata Centro Teatrale Mamimò, diretta con una bella carica adrenalinica da Marco Plini, attraverso il meccanismo della politica-spettacolo.

Il lutto della democrazia si addice ai politici della vicenda, ovvero patrizi e tribuni, catturati e “rivestiti” dal meccanismo del potere. Questi damerini della res pubblica vestono infatti di nero, ed hanno idealmente nelle tasche il manuale di propaganda goebbelsiano, fatto di menzogne ripetute cento, mille, un milione di volte, affinché si generi una verità ipnotica per l’opinione pubblica.

L’untuoso Agrippa, ben definito da Luca Cattani, e il politichese scandito e perentorio, espresso da Cominio, del quale l’attore Marco Merzi ben veste l’habitus mentis, sono la migliore espressione di questa demagogia incravattata. Intanto passano su uno schermo, che anima una scenografia essenziale, immagini da cinebrivido, a 100 bpm, per esaltare il tough boy della Città Eterna.

Il corpo teatrale, nella società dell’apparire, deve farsi “frame”, paradossale prova di realtà in cui il mondo, obbedendo ad un cartesianesimo multimediale, esiste in quanto è pensato dentro ad uno schermo. La platea fatalmente è destinata ad essere arruolata in blocco, in questo kolossal politico-storico in cui lo spettatore è una comparsa interattiva, o meglio interpassiva, chiamata ad assecondare il gioco truccato della democrazia. Le laringi scartavetrano fonemi di guerra, e si fanno melliflui e seducenti nella retorica dei discorsi politici.

coriolanoMicrofoni, megafoni, sono protesi retoriche per straniare il linguaggio politico, pifferi postmoderni di Hamelin con cui incantare il popolo. Mentre i tribuni, recitati con studiata “gattovolpecità” da Cecilia Di Donato e Giusto Cucchiarini, s’arrabattano per accendere comizi in platea, e si sforzano di difendere l’uguaglianza, cercando di dimostrare d’essere più uguali degli altri, come gli animali orwelliani. Davanti al palcoscenico, lo strano coro improvvisato dal pubblico, objet trouvét di questa istallazione artistica della democrazia, è manipolato, stordito, eccitato, ed abbandonato tanto quanto il protagonista. Coriolano, interpretato con vigorosa efficacia da Marco Maccieri, perfetto esemplare di zoon politikon, di animale politico non addomesticabile, respira male nella Roma dei complotti, dei compromessi, dei “soffiati” con cui si costruisce o si demolisce una carriera, e delle “convergenze parallele” tra senato e popolo.

Meravigliosamente s’agita e si dimena come l’istrione evocato da Macbeth, ed è tirato da ogni parte dalle corde di un gioco dei potenti da cui lui, con la sua frenetica e belluina gestualità, tenta disperatamente di liberarsi. Volumnia, una fatale dark lady, incarnata con vis testoriana dall’attrice Valeria Perdonò, la madre del generale, riesce edipicamente a manipolare il figlio, che, nel recitare convintamente il ruolo freudiano, paga il prezzo di una fatale regressione verso un mondo infantile, dove la guerra riacquista la sua tragicomica dimensione ludica.

Interessante la metafora dell’assassinio politico, da parte del notabilato romano nei confronti di Coriolano, dove il lancio delle lame ha tutto il sapore di un rovesciamento grottesco dell’iconica fine di Cesare in Senato. Nel finale della tragedia non c’è alcun dio calato dall’alto, solo lo schermo che ci rimanda, che moltiplica il generale, retrocesso ormai ad un gioco, condannato ad un lento, ma implacabile assottigliamento della coscienza, bruciata dal fuoco marziale. La sua mente, nello sdoppiarsi delle voci, svanisce, ed il burattino, con i figli tagliati, rimane prigioniero della smorfia di angoscia dell’ultimo fotogramma.

Danilo Caravà

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