Una morality play vive in un salotto borghese e su un pianerottolo, ed in un oplà i concetti diventano personaggi, come in quell’antica forma di teatro medioevale, lo spettacolo diventa uno stimolante somatico ed intellettuale, in grado di far afferrare al volo tutto. Lo spettatore è come il servo del dialogo Platonico di Menone, che, con l’aiuto maieutico di Socrate scopre che le verità sono lì dentro di lui, basta saperle trovare. Siamo in una distopia che non è poi troppo lontana, in un mondo prossimo al tramonto, di fronte ad un Hamm beckettiano, che stavolta si declina al femminile.
Il personaggio è ostinatamente fissato alla fase orale, ed ingurgita più cibo, di quanti sigari possa avere fumato Freud, cercando di convincersi che un panino possa essere semplicemente un panino. Sembra di rivedere tutta la forza della dialettica del servo e del padrone di Hegel, le lacrime amare di un fassbinderiana Petra Von Kant che piange per avere un po’ di salsa in più. All’autore Emanuele Aldrovandi va riconosciuto il merito di aver creato una drammaturgia efficace, in grado di tradurre nell’immediatezza scenica la compulsiva bulimia della società consumistica.
La donna divora ogni cosa, e ritrova se stessa nel suo peso, in una massa corporea che prende decisamente il posto del cogito cartesiano: peso, dunque sono. Come il personaggio della Mahagonny brechtiana che si libera all’anarchico desiderio della gola fino a morirne, come i personaggi di Ferreri che provano a realizzare il loro harakiri gastronomico con la grande bouffe, questa donna cannone ha da qualche parte disperso sul divano, nella quale è sepolta, al pari di una Winnie lipidica, la sua voglia di prendere il treno senza passare dalla stazione. La salute del pianeta continua a creparsi come il pavimento che sopporta il peso del personaggio, e qualcuno sotto se ne accorge, e ne fa le spese. Questa Gea malata, obesa e dipendente dal proprio junk food, ha il suo servo-marito, e, quando sembra averlo perduto, ecco che il vicino di casa lo sostituisce, ma, come il servo di Losey, prende il sopravvento, e cerca di curarla costringendola ad una dieta draconiana. E tutto questo avviene in una salotto borghese, uno di quelli che potrebbero essere usciti dal pennello di un Hopper, dove il senso di solitudine e malinconia impregna gli oggetti stessi della stanza. Quello che si realizza davanti agli occhi dello spettatore è un meraviglioso laboratorio antropologico, un acceleratore delle dinamiche sociali, che vuole farci vedere cosa c’è lì proprio dietro l’angolo, appena ad un passo dall’orizzonte degli eventi che sta lì, ad un soffio dal buco nero di un mondo che divora se stesso, e si distrugge.
Col divano la donna più grassa del mondo vive un rapporto cronenberghiano, nel quale la sua carne diventa un tutt’uno con il mobile, quasi ambisse all’esercizio cioraniano dell’assottigliamento della coscienza, alla volontaria regressione allo stato di cosa, alla reificazione, all’essere in quanto si è lì, in relazione ad altri oggetti nello spazio. Angela Ruozzi, la regista dello spettacolo, dimostra di aver fatto bene il suo lavoro, perché la triade dei personaggi mostra il proprio essere, compresa la parte più oscura, senza un filo di grasso, e l’anima dei tre la si può vedere come attraverso il guscio di un uovo di serpente.
I personaggi brechtianamente si siedono dalla parte del loro torto, e sono coerenti con le loro nevrosi, con la loro debolezza, con quell’umanità malata che si portano dentro. Alice Giroldini riesce a far volare la sua voce, a farla diventare il doppio di leggerezza di un corpo scenico ipertrofico. Le sue parole sono l’ultimo ridotto di resistenza, ma anche loro sono a rischio di essere sopraffatte dal colesterolo multimediale, dall’ultimo selfie, dal like, dal commento della community. Ha il merito di far sentire che ancora c’è un corpo lieve, fatto di anima che ogni tanto, in mezzo a tutto quel peso, fa capolino per gridare, con voce sempre più arrochita, il suo bisogno di aiuto e di amore. Luca Cattani è il terzo uomo, il vicino di casa, quello che sta sotto, che subisce i danni di questo voracissimo consumismo, e grida, con bella forza sillogistica, il suo buon senso, prova a curare la donna, riesce a trasmettere allo spettatore il suo brivido di potere, nel momento in cui i ruoli si invertono.
Quando manca il suo obiettivo la sua recitazione si affila sulla coramella del suo finale di partita. Mostra le sue contraddizioni, è costretto a tirare fuori la sua anima cattiva del Sezuan, a dimostrare che le morali non sono poi così semplici, così manichee, fatalmente riproducono il simbolo del tao, e portano un po’ del loro contrario nel loro disegno. Marco Maccieri è il marito che servendo la donna più grassa del mondo forse conquisterà i suoi dieci minuti di popolarità warholiana, e riesce a restituire allo spettatore tutta la nudità della sua debolezza, dell’abitudine che diventa la più grande sordina, il più efficace oppiaceo. Sparisce per mesi, per poi ricomparire improvvisamente dicendo di essere stato in coma, svelando l’estrema fragilità di una mente che per non svanire ha bisogno di aggrapparsi ferocemente ad un enorme scoglio di carne. La postfazione con esseri senzienti rettili, nuovi padroni della terra, ha il sapore della scoperta amara dell’astronauta del pianeta delle scimmie, del riuscito gioco di rovesciamento del racconto della sentinella di Brown.
Potremmo essere condannati ad essere, in un futuro, la testimonianza di vita risalente ad un tempo remoto, magari nella bizzarra postura scheletrica di chi si è scattato un selfie, un istante prima del definitivo cataclisma. Allo spettatore è dato il prezioso compito di soppesare brechtianamente questa donna più grassa del mondo.
Danilo Caravà
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