Ferocia, attenta e sentita fiera di uomini che diventano fiere
Uno spaccato della disumanita’, un’istantanea su quella efferatezza atavica, che da sempre, alberga in quel guazzabuglio del cuore umano di manzoniana memoria.
Questo è molto di più si vive dentro La Ferocia, adattamento teatrale del romanzo, il quarto, dello scrittore pugliese classe 73, Nicola Lagioia, edito nel 2014, premio Strega e Mondello nel 2015. Diventato spettacolo e proposto al teatro Fontana, dal 27 febbraio al 3 mmarzo 2024, grazie al lavoro dei registi Michele Altamura e Gabriele Paoloca’, nell’adattamento di Linda Dalisi che coinvolge sul palco gli stessi Altamura e Paoloca’ assieme a Roberto Alinghieri, Leonardo Capuano, Enrico Casale, Francesca Mazza, Gaetano Colella ed Andrea Volpetti. Le scene sono firmate da Daniele Spanò. Alle luci Giulia Pastore.
L’uomo è fabbro della sua fortuna? Fabbro inesorabile, di quello che costruisce: un universo di cose e successi, accumulati, senza respiro. Il fiuto imprenditoriale della famiglia Salvemini, proprietaria di cantieri e voce grossa nell’edilizia a partire dagli anni 70, non conosce soste. “Ho appena costruito 200 ville sul Gargano” sentenzia in apertura. La sontuosa casa o prigione dorata (con una vetrata a scorrimento, gioco di costanti rimandi tra il dentro della storia ed il fuori del suo significato) finemente ricreata, è base e filrouge ma anche Alfa ed Omega di una vicenda fosca e misteriosa, martello ed incudine di mille altre storie di potere e solitudine, dagli anni del secondo dopoguerra italiano in poi. Stridente e ben ricreato, Il paradosso, a cui si assiste. Tutti gli investimenti di Vittorio Salvemini, il pater familias, non hanno però mai investito davvero su uno dei suoi tesori più grande, sua figlia Clara, secondogenita, e trovata nuda, morta ed insanguinata su una strada, che collega Taranto a Bari, secondo quanto prova a ricostruire Gennaro Lopez, uno strambo e cocainomane addetto all’autopsia. Un suicidio? Di sicuro un fatto, detonatore di un effetto domino di episodi, di situazioni. Si perché Clara, non presente sul palco, è però una sorta di motore immobile che muove le vite di chi è rimasto e deve fare i conti con un male avvolgente ed indistricabile, ineluttabile cellophane. Mentre il giornalista Danilo Sangilardi , dentro una cabina alla Enrico Ameri, narra ed espone la catena di avvenimenti, si spalancano allo spettatore una miriade di immagini. Si sentono quasi i passi del Leviatano di Thomas Hobbes, si intravvede, in filigrana, il Dialogo di un islandese con la natura di Leopardi e quella verità amara: la natura non è né bella né brutta, è indifferente.
Gli atti che vivono i personaggi sono meccanizzati dall’istinto, divorati da un’animalita’ quasi morbosa ed irrefrenabile, dove non esistono carezze ma lividi di un’esitenza consegnata al dio denaro dal grande padre orologiaio, per cui Clara altro non è, che lancetta e ganglo, di questo sistema. Il tavolo, attorno al quale si ritrova, dopo il funerale della stessa Clara, la famiglia, somiglia tanto a quello di una bisca esistenziale, persa, fallita. Vittorio è un padre che non ha mai scoperto, nella sua prosa accumulatrice, il verso dell’amore. La moglie, Anna Maria, è una donna esaurita, il fratello maggiore, Ruggero è un medico ontologo prono alle mire imperialistiche del padre, il marito di Clara, Alberto, tradito e trattato in vita da Clara come Salvemini, in fondo, ha fatto con i suoi possessi, per averne di altri ancora e dulcis in fundo Michele, il fratellastro, incarnato da Paoloca’, con disturbi mentali, a priori sbattuto in un mondo a parte e vilipeso, ma che si rivela, a ben guardare, l’unica pars costruens, di una famiglia da tregenda, divenendo con Sinisgardi, quasi un collaboratore di una qualche verità. “Ora che si sono abbassati gli steccati della morte, voi ne create degli altri” rivela ad un certo punto.
Il vademecum continuo della narrazione? Quel vuoto occidentale, che ha trasformato il boom economico in un bleh valoriale, capace di triturare tutto e tutti, in nome di nessun ideale ma di un algido ma tragico costruire.
A proposito di tragedia, brillante, la compagnia, a far toccare con mano la grande lezione della tragedia greca, da Agamennone ad Edipo, una congerie di colpe dei padri, che condizionano le scelte ed il modus vivendi dei figli, farfalle che gioco forza, devono abbracciare i fucili, per dirla con le parole di Mariposa, la canzone di Fiorella Mannoia al Festival di Sanremo.
Un crogiolo di colpe originarie che si scatenano a dismisura sulla prole e sui futuri centri di vita ed originano un destino truce e truculento, nessuna caritas insomma, ma solo la potenza di un Gigante caso nietzschiano.
Un sacrificio che non rende nulla sacro ma tutto atroce. Ferocia, andando all’etimo, deriva da ferus selvaggio e fera belva. Le tre famigerate fiere di Dante. Ma anche le intrusioni di animali, presenti e vividi ( la gatta di Michele, le citazioni di fenicotteri, topi, seppie ed altre bestie)a rendere appieno il pensiero di Lagioia: l’etologia è largo e variopinto specchio della vita umana:uomini come fiere, appunto, che si dimenano, che non trovano mai pace. Una fiera dunque di bestie da vedere all’opera, da interiorizzare, da tener presente, con quell’avvertenza, non scritta ma dettata dal buon senso, che al solito si trova in calce agli spettacoli circensi estremi: da non ripetere a casa.
Luca Savarese
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