
Mentre Rosencrantz e Guildenstern sono presi dal loro testa o croce, qui c’è un Orazio metateatrale, l’anima buona della Danimarca, che, faticosamente, cerca di metabolizzare le cose che ci sono in cielo e in terra, e non nella sua filosofia. Geniale il fatto che l’autore e regista, Paolo Mazzarelli, compiendo una sorta di rivoluzione copernicana, abbia deciso di puntare il suo telescopio drammaturgico sulla piccola luna orbitante intorno ad Amleto: Orazio. Nelle tragedie shakespeariane si trovano, fatalmente, archetipi, categorie metasceniche, tarocchi junghiani (fatti, a loro volta, di archetipi) che possono vivere in mille altre forme. Dunque, eccolo qui l’amico del triste principe di Danimarca, il suo contrappeso esistenziale; un Falstaff in disarmo, un giovane Welles in piena crisi letargica, vive in un teatro dismesso, cercando di soppalcare il silenzio in cui l’ha lasciato Amleto.
Cosa succede nel dopo tragedia, quel particolare momento in cui il protagonista del videogioco ha perso l’ultima vita, ed è in attesa di ricominciare? Le ultime divinità hanno finito di spazzare via dal palcoscenico l’ultima polvere della catarsi, e, in platea, anche gli spettri hanno disdetto il loro abbonamento. Proprio da questo momento prende le mosse la vicenda: dalla sempiterna crisi del teatro, mentre un Ollio immalinconito, con fiori e nascosti cannoni che s’agitano nel diaframma, trova la sua compagna di scena in uno Stanlio al femminile, ostinato, più della Sonia cechoviana, nel credere ancora nel teatro. Ci si offre un’altra villa di Cotrone, allestita alla meglio sul palcoscenico; un altro rifugio per i supplementari dei finali di partita teatrali. Gli attor giovani masticano ancora la poesia del Bardo, e ci riescono meravigliosamente, dimostrando di avere denti sani e un appetito formidabile. Sì, perché, a un certo punto, le scene dell’Amleto appaiono con la naturalità con cui sbocciano i fiori del male ( e del bene). Allora, il daimon del teatro, la passionaccia che ancora riesce a contagiare con i suoi febbroni, sfodera tutta la sua potenza. E, quando ti scoppiano, negli occhi e nel cuore, le mani, michelangiolesche, di Orazio e Amleto, quando riescono a strizzarti l’anima fino a farla sanguinare, capisci che tutto si è davvero compiuto, che le armi del fare teatro sono tutt’altro che spuntate. Malgrado l’ingombrante padre, più freudiano di Freud, ostinato, imbruttito peggio del famoso milanese, la scena può continuare a vivere con una convinzione unica, con un amore sconfinato di cui si sente il piacevole profumo in platea. E non che non vengano offerti argomenti per piantare la spada, e dire no; ma la forza invincibile di certe parole che risuonano attraverso i secoli, la capacità di prendere per il bavero anche il più spietato dio della carneficina, non manca mai, non può mancare. La ricetta drammaturgica ben creata, e cucinata sul palcoscenico, prevede che il ragù diventi odoroso e si addensi, nei momenti di commedia, nell’ennesima stagione della serie Netflix intitolata Why must the show go on?, per poi diventare un succulento sugo tragico, lirico, che ti fa venir voglia, in platea, di farci la scarpetta. Antonio Bandiera è un Orazio con la mise di un brontolante Balzac, in grado di far volteggiare con grazia il suo fisico imponente, facendo slalom tra le asticciole della commedia umana.
Batte ogni fonema con la forza dei tamburi di guerra! Beatrice Vento, obbedendo alla legge del nomina sunt consequentia rerum – i nomi sono la conseguenza delle cose -, porta in scena tutta la levità e la piacevolezza di un ponentino in grado di farti, letteralmente, friccicare l’anima! La sua fede ostinata nel rito teatrale, il suo pungolo socratico, sono costanti quanto la stella polare, e si aprono, persino, a una prospettiva metateatrale, in grado di svelare l’amour fou dell’attrice per le tavole del palcoscenico. Francesco Jacopo Provenzano è tutto ossa, nervi, tendini e recitazione. Si mostra come corpo essenziale, ideale artistico, sia battendo sulla laringe latitudini del Sud, sia quando ha l’opportunità di trasumanare in Amleto, e di fare, dell’istante, un intero regno mancato. Sottile come un’asta di vessillo, permette ai suoi fonemi di garrire, orgogliosamente, al vento. Paolo Mazzarelli è (fra l’altro) un padre che ronza come un moscone nella vicenda, incarnando, con divertita e divertente efficacia, l’attrito della tradizione, delle laringi bronzate, dell’interrogativo fiabesco riveduto e corretto: specchio, specchio delle mie brame, chi è l’attore più talentuoso del reame? Accompagna, anche e soprattutto metateatralmente, questi giovani nell’avventura, estremamente perigliosa, del fare teatro, e lo fa, per citare un’espressione del codice civile, con la dovizia del buon padre di famiglia. Insieme agli interpreti, anche la platea è coinvolta in questo dietro le quinte, tutto rumori e brontolii fuori scena, ad accompagnare la costruzione della tragedia che spezza le vene delle mani!
Danilo Caravà
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