Recensione: “Macbeth – Sonata da camera”

sonata da camera

In principio sono le mani. Parole tattili, misteri che abitano i corpi, come direbbe Pessoa; identità devianti alternative che si muovono coreuticamente, con la grazia e la sensualità di Salomè. Le mani di Macbeth e della Lady si ergono da un cumulo di vestiti e di giorni (in)felici, sommersi dal gioco di specchi delle identità sociali. E’, senza dubbio, forte e impattante la scelta scenica di utilizzare degli abiti, che richiamano immediatamente l’habitus mentis dei due personaggi. Sono il residuo coriaceo della masticazione, ruminazione, delle ritualità sociali, bucce di lupini di mondano dover-essere, che rimangono a memoria del gran banchetto esistenziale. Ed ecco la tragedia shakespeariana portata implacabilmente al centro del suo centro, al suo sancta sanctorum: la storia di una coppia che si taglia la carne dell’anima, rompendo lo specchio rappresentato dall’altro.

Sartre ha chiuso a doppia mandata le porte di Zara, e ci ha lasciato dentro un re e una regina, a bruciarsi reciprocamente con gli inferni interiori. Non c’è nessuna via di scampo in questo lockdown esistenziale, in cui Strindberg tira schiaffi di tessuto sul maschile e sul femminile. Il ring è sempre quello, e la partita hegeliana è sempre quella, al riconoscimento del sé che si cerca nell’altro/a. E poi permane una certa hybris, una volontà di barare, di bluffare con gli dèi, e di essere sempre più grandi di quanto si possa essere, gonfiando il petto. E Macbeth lo gonfia il petto, come se fosse un mantice, battendo ritmi sciamanici sul suo diaframma, e impara a proprie spese che, parafrasando Wilde, vedere realizzati i propri desideri può diventare la più micidiale iattura. A corte, ormai, ci sono cellulari, apericene, musica martellante, e la voglia della Lady di mettersi giù da battaglia e di schiacciare, come la più convinta mistress, sotto il tacco del suo coturno tragico, tutta la corte. Ma gli scorpioni sono lì, in agguato nella testa: c’è sempre un conto che non torna, un Banquo che ritorna a dare acidità di stomaco e di anima, un riflesso esofageo del cuore, un mondo che non riesce proprio a essere digerito. Mai, come in questa versione, ci si accorge della vicinanza del re scozzese con i personaggi della tragedia di Sofocle. L’eroe e l’eroina sono giocati dal destino, pensano di guidare e sono guidati; e la follia è l’unico cortocircuito in grado di interrompere questa ipnosi, questa zombizzazione della propria volontà. Volano, letteralmente, gli stracci, ed è giusto che sia così, affinché possano affiorare le verità più scomode. Sono bergmaniane scene da un matrimonio, ma riprese ostinatamente a camera fissa. Il coro sono i vestiti, i militi ignoti di innumerevoli battaglie sociali, che, col loro silenzio assordante, sono in grado di sommergere letteralmente i due protagonisti.

Ricordano fatalmente le due marionette, quella di Ninetto Davoli e Totò, abbandonate in una discarica, che non hanno nemmeno la gioia di scoprire le nuvole e, con esse, il cielo. Si rimane sempre piacevolmente incantati da quella magia che permette agli interpreti di generare una risata in platea per poi, un attimo dopo, inchiodarla, fonema dopo fonema, sul legno dell’attenzione. Rorido di sudore, Macbeth ruggisce il suo dolore, ma con un tono rauco, come il corvo evocato dal monologo della Lady. E la Lady, pirandellianamente, è proprio come si vuole che sia: compagna, amante, torturatrice, virago, femmina ammaliante. Ma il bello è che, al momento giusto, sa diventare un’altra: si smarrisce e smarrisce il proprio smarrire, lasciando il piacevole brivido di inquietudine che regala la visione fatale di una maschera nuda, mentre il re cerca, tra un cocktail e l’altro, la sua anima, che si è sciolta più veloce del ghiaccio nel bicchiere. Sembra restituire efficacemente la felice intuizione che il monologo finale di Macbeth, in realtà, costituisca una precognizione, quasi l’aura di una crisi comiziale, in tutto il suo percorso scenico. Aleggia l’ombra del non senso, preludio all’assurdo del Novecento. I vestiti sono, alla fine, i vari strati della cipolla del Peer Gynt: la ricerca di un sé dietro l’io, di una mancanza che ha, almeno, la consapevolezza d’esser tale. Va tributato un sincero grazie al regista dello spettacolo, Omar Nedjari, che si mette al completo servizio di questa storia: fa scorrere il fiume eracliteo del presente cangiante della scena, e, nell’attimo corretto, lascia che i personaggi si smarriscano e si ritrovino, nel luccichio dei loro fonemi, nel riflessi di luce di una lama più affilata del rasoio di Ockham. Chiara Salvucci si immerge con convinzione nel personaggio, danza con Dioniso tra meravigliosi lampi di lucida follia apollinea. Abbraccia disperatamente il suo Macbeth; ma anche, anzi soprattutto, lo ferisce. Lo stringe e lo stringe d’assedio, fino a fargli male. Angelo Donato Colombo si lascia ustionare dai suoi fonemi, e sacrifica sull’altare delle sue battute tutta la sua carne e tutta la sua anima. Le sue parole sono un presente che sferza, che colpisce duro: sono i pugni di un peso massimo, di un Cassius Clay, che vola come una farfalla e punge come un’ape.

Danilo Caravà

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