Recensione: “Medea”

medea
foto Roberto De Biaso

Medea è uno di quei personaggi da maneggiare con cura; un personaggio con cui persino le antiche divinità rischiano di ustionarsi, di provocarsi ferite che nemmeno la più raffinata teologia riuscirebbe a sanare. La causticità di questa donna, di questo femminile eterno, è maledettamente inquietante e, insieme, affascinante come il sublime kantiano. E, al pari di quello, rappresenta la reazione di fronte a una grandezza immensa naturale, che milluplica il suo potere estetico, quando si mostra nella sua veste terribile. Lo sa bene, tutto questo, il regista Emilio Russo, che preferisce, come un abile giocatore di poker, spillare la sua creatura scenica, mostrandone tutta la devastante fenomenologia della vendetta. Dapprima velata, appare uditivamente, con fonemi prossimi alla zona del pre-verbale di una ventralità immediata, tutta squisitamente femminile, che farà mostra di sé nella più aberrante nelle forme.

Che felice intuizione è quella di giocare questa tragedia attraverso il codice apollineo, nell’accurata ricerca di una misura, di un modus operandi che, in scena, si traduce in camminate lente e consapevoli, come nella meditazione dinamica dello zen. Persino i gesti di Medea sono mudra: figurazioni di una danza sacra, di una Bharatanatyam,  ballo classico indiano che profuma degli dèi, ovvero del grasso sfrigolante sull’ara dei sacrifici. I passi, lenti e fatali, che cadenzano e creano una sorta di punteggiatura della vicenda, esprimono rigorosi vettori di movimento. Insomma, vive e abita la scena tutta  la meravigliosa contraddizione di una geometrica costruzione di movenze, di un confortante mondo pitagorico euclideo, che sbatte e naufraga sullo scoglio di Medea, abitata e posseduta da forze la cui dicibilità è tutto un esercizio di pause e sottili intenzioni. Il canto di Camilla Barbarito è una preghiera tragica due volte più potente, in questa forma musicale, come insegna il buon vecchio Sant’Agostino. E’ in grado di mostrare immediatamente quel pensiero non pensabile di questa nefasta vicenda: il cuore nero e, insieme, immacolato che palpita di emozioni estreme, sublimate nella magia dei gesti, nei soffiati attorali, potenti quanto i tocchi delicati di Chopin, prodromici della più crudele delle tempeste. Romina Mondello, vestita di un’opalescente sericità, cammina, letteralmente, sulle punte della sua laringe, e le sue unghie fonetiche sanno penetrare la quarta parete con l’inesorabilità di uno stiletto affondato nel ventre della platea, sotto un’ideale tavola. Con la perfezione di gesti del teatro Nō giapponese, diventa una figura “numinosa” in grado di sfidare l’etica più radicata, e persino le forsennate Erinni.

A differenza dell’Oreste eschileo, non ha bisogno di una dea, ma trova dentro di sé la generosità del meraviglioso sdoppiamento tra luce e ombra, tra Ecate e Atena. Gianluigi Fogacci è un Giasone che mostra, con efficacia, quanto il torchio della nemesi possa stritolare la sua testa, e far sentire alla platea lo scricchiolio, il venir meno di un cranio-mente che si arrende alla più irrazionale delle disperazioni. Paolo Cosenza è un Creonte intossicato dalla paura, con un freno a mano delle intenzioni mirabilmente utilizzato attraverso un’interpretazione trattenuta, fatta di accenni, di esitazioni. Nicolas Errico, Claudio Pellegrini e Debora Zuin sono il dono di gemme corifee in grado di adornare la corona della rivalsa di Medea. Assistono, raccontandolo nel più puro spirito dell’esegesi aristotelica, al teatro della crudeltà costruito, con aracnica pazienza e dovizia, da Medea. Osservano e si illuminano di una grazia impalpabile, di una compassione che funamboleggia, con estrema efficacia, con l’orrore e il raccapriccio. E, proprio come l’orrore del Kurtz di Marlon Brando, impresso ora e per sempre sul magnetofono, con una demoniaca pacatezza, questa Medea potrebbe bere sangue bollente e superare in crudeltà il dio della più spietata carneficina, continuando a battere sul palato fonemi sottili e implacabili, come quelle piogge sottili in grado di scavarti dentro, nella carne, fino alle ossa.

Danilo Caravà

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