
Certi indiani battono il piede per terra, come una danza e allora incomincia a piovere e quella pioggia attraversa il cielo e la terra e si va a rimescolare con l’acqua del mare. E quelli sono i morti, che attraversano il cielo e la terra e vanno a rimescolarsi con l’acqua del mare e producono un suono straordinario, prodigioso, che trasforma il pianeta intero in una campana vibrante che corre nello spazio senza fine raggiungendo le fasce di Van Allen a ventimila km dalla terra.
Questo è l’incipit dello spettacolo “Pueblo” di Ascanio Celestini visto al teatro Franco Parenti di Milano il 26 aprile.
L’ambientazione scenica è molto simile a quella di Laika, primo spettacolo di una trilogia di cui Pueblo è il secondo capitolo.
Anche qui vediamo una specie di teatrino fatto con una tenda bianca che lascia vedere in trasparenza una tavola con oggetti tipici da cucina e una televisione. La tavola è, in realtà, il pianoforte suonato dal bravo Gianluca Casadei, autore di tutte le musiche dello spettacolo. E poi, in scena, casse dell’acqua vuote e una bicicletta.
Come sempre accade, Celestini si circonda di una scenografia scarna, semplice, che potrebbe essere riprodotta in qualsiasi luogo. Ed è questo uno dei valori aggiunti delle pieces di questo grande autore, regista e attore romano. I suoi spettacoli possono essere rappresentati in ogni luogo e in ogni tempo.
La drammaturgia di Celestini è un susseguirsi di storie straordinariamente speciali di personaggi semplicemente normali. È una composizione poetica i cui strumenti risultano essere come quelli fabbricati in casa con materiale di riciclo che, però, producono un suono celestiale.
E così incontriamo Domenica, la barbona che non chiede l’elemosina e che, pian piano, scopriamo come una donna che nella vita ha conosciuto solo le botte e l’umiliazione.
Incontriamo Said, suo fidanzato, nord africano di origine che viene allontanato dal nostro paese perché senza permesso di soggiorno. Se ne va promettendo a Domenica che tornerà da lei perché la ama, perché è l’unico uomo che non l’ha mai picchiata e lei gli crede perché non può permettersi di fare altrimenti.
Incontriamo le “suore bastarde” che giocano a sostituirsi a Dio, relegandolo in cantina, per “educare” ragazze a suon di leccate di pavimento.
C’è Violetta, che lavora al supermercato ma non fa semplicemente la cassiera, fa la regina della cassa e, soprattutto, la regina di quel regno fatto di persone disilluse dalla vita, che vivono ai margini della società come sua mamma che cucina solo zuppa liofilizzata.
Le storie di questi personaggi, come sempre accade nei testi di questo straordinario artista di teatro di narrazione, sono ambientate nella periferia della sua città, Roma, che lui stesso conosce molto bene e che rende sempre protagonista. E così, anche in questo racconto, il luogo simbolo, dove si sviluppano le vicende dei personaggi, è il famoso “quadraro”, quartiere a sud-est della capitale, già conosciuto in altri spettacoli di Celestini.
Come sempre, il regista, fa un uso delle luci molto semplice ma assolutamente particolare e non banale. E così lo spettacolo parte con l’attore e il musicista illuminati dietro una tenda bianca.
L’intera piece si sviluppa poi in un ambiente cupamente illuminato. Colpisce la scena fatta solo con le torce che aumentano esponenzialmente la sensazione di claustrofobia e ansia per la scoperta di quei milioni di esseri umani abbandonati in fondo al mare a seguito delle centinaia e centinaia di naufragi, di ieri e di oggi.
Come in “Laika” anche in “Pueblo” Celestini ha un interlocutore, a cui pone domande e dà risposte. E questo interlocutore si chiama Piero ed è il musicista Casadei a cui l’autore ha dato questo nome. Lui, però, non risponde a parole ma con la musica. Solo alcune volte sentiamo le sue risposte ma sono rappresentate da una voce fuori campo, quella di Ettore Celestini, che interviene nella scena senza però rompere l’atmosfera.
Pueblo ci regala anche una piccola finestra su un Ascanio Celestini non solo personaggio, come invece succede in altri spettacoli, ed è una visione molto interessante e poetica che, con la sua semplicità, ci fa ridere moltissimo ed emozionare ancor di più.
Francesca Tall
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