
Guardare ed ascoltare uno spettacolo di Alberto Astorri e Paola Tintinelli è prima di tutto un’esperienza esistenziale, è la tridimensionalizzazione dell’aforisma di Cioran “vivere è perdere terreno”. E questi due interpreti,. che immaginano un testo scenico al di là di Beckett, al di là dell’ultimo orizzonte di dicibilità, dove la parola è a un passo da diventare urlo, e la preghiera ondeggiante davanti al muro della contemporaneità è a meno di un passo da diventare una testata, nel ridotto di resistenza del loro palmo di terra scenico nell’accogliente ambiente amniotico del Teatro della Contraddizione, gettano le loro pietre fonetiche in platea, e financo la stampella totiana di uno struggente amour fou per il teatro. Stavolta porgono agli spettatori i fiori del male baudelairiani, facendone sentire prima di tutti le spine, il dolore, lo strappo, dal quale nasce la poesia. Nel gioco serio, doloroso, meta teatrale, in cui i due fingono pessoanamente di essere attori, e sentire il dolore che davvero sentono, interpretano due volatili, due ideali albatros presi in prestito dal famoso carme del poeta francese, con un’apertura alare maestosa, adatta ad un volo artistico. Sono costretti, però, a caracollare sul terreno di una realtà in cui i giganti pirandelliani si sono fatti nani, e le ballerine non hanno più nemmeno un varietà in cui stordirsi e stordirci.
Si ride, certo, ma si sente anche distintamente il suono fesso, stonato di una campana che mostra la scomoda “veritade ascosa sotto bella menzogna”, ossia quella di un teatro che pratica un ideale seppuku, e ci mostra la viscerale onestà della sua anima, che ancora impavidamente cerca la poleis alla quale donarsi, cerca la catarsi con le unghie e con i denti. Astorri nei panni femminili, al di là delle identità dei generi, e nietzschianamente al di là del bene e del male, trasforma i suoi tacchi, negli ultimi possibili coturni, comprati al discount del “raccapriccio”, e adatti per alzare convintamente i pugni prometeici, mentre l’aquila del teatrino d’evasione gli mangia il fegato. E’ la sua voce che si sente, ritagliata esattamente del peso della libbra di carne del “mercante della Biennale di Venezia”, il più possibile vicino al cuore. Si ha l’impressione che da un momento all’altro si possa ascoltare la voce del padre pirandelliano che grida “verità, signori, non finzione”. E mentre sanguina anima da tutte le ferite che si provoca per farsi tutto corpo di poesia, tiene il teschio di un volatile, versione zoomorfa di quello di Yorick, e si gioca il suo personalissimo “essere o non essere”, alla luce di un faro in cui cartesianamente dirsi e trovarsi ancora attore.
Paola Tintinelli, prega, ma prega nel modo in cui sa fare lei, prega con la carne, con i grumi di voce, con il copricapo di un piatto di batteria ed un bastone sembra un monaco giapponese, che ci offre la speranza di un’illuminazione diversa da quella degli spot. Sono due clown tragici, sono quella dolorosa risata liberatoria che precede l’ite missa est. E la speranza va uccisa perché possa rinascere dalle sue ceneri, e l’uovo, fatale come quello di Bulgakov, non importa che sia distrutto, perché si potrà beckettianamente fallire ancora, fallire meglio. Dietro i meravigliosi tempi comici, dietro i lazzi, dietro la tragicommedia dell’arte c’è, ed in questo lavoro appare ancora più distintamente, il meccanismo stesso che anima la tragedia da sempre, la curva esistenziale della hybris e della dike. Tutto questo si traduce nell’eterno tentativo di superare se stessi, di trasumanare trasformando le parole in un’arma tagliente, più affilata del rasoio occamiano, in grado di tagliare la carne per fare apparire guizzi, lampi di anima che cerca ancora un cielo in cui potersi dire. Ma poi c’è la dike, la nemesi della divinità del consumo di massa, del tot al chilo, del divertimento che è un oppio ben più pericoloso e letale di quello evocato in scena, pronta a riempire di petrolio le ali e tutto il piumaggio di questi volatili, che hanno ancora i sapore del volo nella loro voce. Sono gli uccelli aristofaneschi, esiliati dalla loro città ideale su una terra su cui si fa fatica a camminare, figuriamoci a volare.
Qui si fa il Teatro con T maiuscola, quello dove Dioniso si fa dilaniare battuta dopo battuta, scena dopo scena, sera dopo sera, dal testo, per poi rinascere ogni volta. Qui si trascina ancora il carretto di Tespi, si tratta il palcoscenico come cosa salda, si chiama la carne con il proprio nome, e l’umano può lanciare il proprio grido di guerra verso l’impari ricerca del proprio senso, del proprio ubi consistam. E’ un finale di partita giocato anche oltre lo scacco matto, che vuole scuotere, vuole regalare ancora un brivido di vita al di qua e al di là della quarta parete. Da queste parti, sotto un sole scenografico, agognato quanto la luna del Caligola di Camus, ben oltre il sud del sud dei santi di beniana memoria, nella terra dei peccatori, dove si sono perse anche le coordinate geografiche, la vita vive, eccome se vive, è ha ancora a forza di alzare la voce, di esprimere, con estrema vivacità tutto il proprio “raccapriccio” per la deriva della futilità di questa nostra età contemporanea. Allora al posto di Godot si potrà attendere che l’uovo si schiuda, e possa nascere l’ultimo messia che pronunci roboticamente un nuovo fantascientifico ultimatum alla terra.
Danilo Caravà
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