Recensione: “Chi come me”

chi come

C’è un momento, un istante magico irripetibile, un adesso che ferma il tempo lì, proprio dove ci si trova, in un posto della platea; un momento in cui la poesia è gesto, azione, in cui le cose sono se stesse, ma anche qualcosa di diverso, crepandosi di  luce interna che odora di una salsedine umana, appena appena nascosta dietro gli occhi. Il poeta Arminio ci ricorda che la poesia è un mucchietto di neve in un mondo che ha il sale in mano; e la regista Shammah ci mostra quel mucchietto, quel piccolo tesoro, chiedendoci di custodirlo, con una muta presenza invisibile, scena dopo scena, nello spirito di trasmissione da maestro zen a discepolo, i shin den shin, da cuore a cuore, da mente a mente. Cinque ragazzi, nel reparto giovanile di un ospedale psichiatrico, mostrano, dolorosamente, quell’anima che, sulla terra, caracolla goffamente come l’albatros di Baudelaire, catturato dai marinai, tanto desideroso di volare da farsi scoppiare il cuore. Il disagio psichico torna, in questa pièce, a una dimensione antica, atavica, dove le persone avevano una follia sacra; erano così perché toccate dal divino irreparabilmente, costrette ad esprimere con smorfie, silenzi e contorsioni, lo spazio e la voce di un assoluto, nei limiti della pelle.

In quella mano fatta di cinque corpi, in quel pentateuco di scrittura, insieme, umana e divina, ci siamo noi tutti:  la fragilità estrema di animulae vagulae e blandulae che custodiscono un sorriso fra le dita, con lo stupore e la meraviglia di chi trova una lucciola e la mostra all’amico. Pungolati socraticamente da una maestra che sa di non sapere, insieme soffrono e s’offrono al mondo. Incarnano la nausea di Sartre e la rivolta di Camus; hanno, ben nascosto sotto le lenzuola, l’arpione con cui combatteranno  la loro balena bianca, il giorno successivo. E, sopra ogni altra cosa, non hanno una pelle che filtri il vento delle emozioni: esso arriva direttamente ai loro nervi scoperti, fa male all’anima, con un dolore indicibile. 

L’unica cosa che si può davvero fare, e loro tutti ci riescono, è trasformare tale dolore in atti poetici. Sono azioni psicomagiche, le loro, quasi una forma di cabaret mistico di jodorowskyana memoria. Non più la mente duale, razionale, ma quella intuitiva, quella magica, quella del mito e degli archetipi: l’unica in grado di compiere il viaggio nell’inconscio più buio, e uscire a rivedere le stelle, in forma di tenere lampadine appese al soffitto. Non si sarebbe potuta trovare metafora scenica più potente per la necessità del teatro, sottolineandone il valore terapeutico esistenziale, e, financo, spirituale. C’è travolgente fiducia, in questo lavoro teatrale: una volontà, insieme, di un passaggio, di uno sguardo rivolto alle altre generazioni, e di ritrovamento del proprio dell’infanzia. La frattura primaria, il dolore per un amore che comincia a fare i conti con i propri confini, diventano struggenti, strazianti gesti, come quello di offrire l’origami di carta in forma di gru, idealmente, allo spettatore, come il Buddha mostra il fiore a Mahakashapa, trasmettendo un supremo insegnamento. Ma ancor più forte è il tentativo di ripararlo: ci vuole tutta l’umanità di uno spettacolo, e la forza poetica dell’inquietudine giovanile, per fare questa operazione.  

Paolo Briguglia è uno psichiatra che aspetta, con la dolcezza di un personaggio di Peanuts, il grande cocomero della guarigione dei suoi pazienti, e sente una radicatissima affinità elettiva con il loro disagio. Più che con asettica severità medica, guarda con partecipazione paterna queste dolcissime creature, e  le abbraccia con fonemi caldi come mani: mani possenti, che vogliono accogliere, proteggere. Elena Lietti è un’insegnante di teatro che impara dai suoi particolarissimi allievi; vede tutta la luce, rifratta nei cinque ragazzi, della propria inquietudine, della propria fragilità. Guarda la scena con occhi spaventati da cucciolo, in cerca di una carezza teatrale, di un gesto simbolico, che redima e faccia redimere. Sara Bertelà e Pietro Micci, attraverso un vorticoso fregolismo, mostrano, a madamini e madamine mozartiani della platea, tutto il catalogo delle psicopatologie della vita genitoriale quotidiana. Vittime di mille nevrosi, più che genitori sembrano, a tratti, figli dei loro figli: testimoni di angeli che hanno le ali legate a letti di contenzione, a una follia poetica come quella del protagonista di  Sognando di Don Backy.

I ragazzi e le ragazze si fanno, meravigliosamente, come suggeriva Parenti, recitare dagli altri; in un gioco di virtuosi rilanci, accolgono con naturalezza il disagio dei loro personaggi, e ne fanno pulsante luce del firmamento. Che funambolica camminata si percorre con questo spettacolo, in equilibrio sopra la follia, accettandola come parte di sé per cui provare compassione, come un momento di crescita. Nell’arte del Kintsugi giapponese, in un oggetto riparato, si valorizzano, con fogli d’oro, le cicatrici della ricomposizione; nell’ostrica, la perla è la bellezza chiamata ad attenuare un granello, che irrita la vita nel suo interno.  Lo stesso fa la regista con la nostra anima, rendendo la sua malattia un prezioso gioiello, nel meraviglioso laboratorio di una sala teatrale.

Danilo Caravà

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