Recensione: “Oblomov show”

oblonov show
Foto Antonio Ficai

La felice intuizione della compagnia Oyes ci restituisce un Oblomov approdato nel XXI secolo, nella forma di un regista  che ha scelto, amletico, di piantare la spada e dire no. L’antico otium romano torna come un’invincibile tentazione, come alternativa al nec -otium; e ci si accontenta di tenere la posizione all’interno della propria casa. E’ un Cincinnato postmoderno e stranito che, alla vita politica, intesa in senso etimologico, come vita della polis, fatta di reiterazioni, coazioni a ripetere, girotondi , falsi divertimenti (e falsi movimenti),  preferisce il ritiro; e che, all’aratro, privilegia il gioco sul cellulare, versione elettronica, rumoreggiante, pixelata, del sempiterno rocchetto di Hans. 

Lo svago è sempre lo stesso: allontanamento/avvicinamento, abbandono/ritorno. Con buona pace di Cioran, il protagonista non perde terreno vivendo, semplicemente perché a esso ha rinunciato, restringendolo a uno spazio domestico. Le scatole in scena, impilate, spostate, accomodate, sono felice metafora di un ordine interiore/esteriore, difficile, o meglio impossibile da trovare; al più, si rientra nel tentativo gestaltico di una, via via, differente percezione del tutto.  L’americana calata in scena, come ultimo vestigio di un deus ex machina che potrà, al suo meglio, illuminare, consente di trovare un rapporto più diretto con i personaggi, aprendo con essi una sorta di continua istruttoria weissiana. E il tormentone de “Il  cielo in una stanza” sembra diventare la canzone di una presa di posizione , insistente, esistenziale;  esprime il desiderio di  trovare un’impossibile verità, un’improbabile squarcio di poesia dickinsoniana nei limitati metri quadrati di un vano immobiliare. Qui, per dirla come il Lorenzaccio di Bene, si vivacchia, e, più che le gambe, si muovono le parole.

Da qualche parte, potrebbe anche esserci un samovar la cui la temperatura si sia sensibilmente abbassata, o uno zio Vanja pronto a raccontarci le proprie uggie esistenziali. Ma, a queste latitudini,  la vita non vissuta, il 95 per cento montaliano, viene “rivendicato”: non è subìto, bensì ricercato, e non serve un revolver catartico per un finale rappel à l’ordre. La ripetizione di schemi scenici è l’esatta riproduzione di questa vita, di sapore adorniano, che non vive, bensì sonnecchia distrattamente, e, di  tanto in tanto, ruggisce il proprio scontento. L’uomo contemporaneo ha bruciato tutti i chip di memoria cartesiana, l’uomo dell’impegno è diventato quello del disimpegno. Rovesciando un famoso aforisma pirandelliano, si potrebbe tranquillamente affermare che, qui, essere non è farsi, ma sfarsi, disfarsi.  Oblomov è un Bartleby che mantiene giusto quel tanto di fonazione per sbadigliare, e, a volte, urlare l’eterno inverno del suo scontento. Ma la frase è sempre la stessa, “AVREI PREFERENZA DI NO”. Certo, in questo caso non è portata, eroicamente e tragicamente, fino alle estreme conseguenze: ci si accontenta della trincea casalinga, di quella linea di non resistenza,  in cui l’essere e il non essere, non più distinti, si meticciano,  contaminandosi  vicendevolmente. D’altra parte,  l’avevano già capito i drammaturghi dell’assurdo, e, in particolare,  Ionesco:  nel mondo contemporaneo la tragedia diventa, involontariamente, slapstick,  e la risata è giusto a un respiro dal pianto.

Merito di questa compagnia, che si gioca felicemente anche la carta metateatrale, è quello di mostrare la verità  di tutti i giorni, usando  una sorta di ideale microfono per la presa diretta, e  raccontando le cose come sono, non come dovrebbero essere. Restituire tutto quel sapore strano, vagamente metallico, straniato, né buono né cattivo, del boccone esistenziale; ecco la cifra distintiva di questa ensemble, la capacità di offrire il pasto nudo del vivere.  Martina De Santis è l’amica che prova, come Horatio, a trovare del metodo nella follia di Oblomov, ma ne scopre uno specchio. L’interprete si gioca i fonemi e i gesti con maestria, regalando a essi la vertigine del non detto e dei doppi/tripli fondi.  Francesca Gemma è la vita chiassosa, rumorosa, quella che ha ancora voglia di cantare, e di pronunciare, come un mantra, il fatto di crederci. L’attrice si gioca bene il personaggio, riuscendo a regalargli anche le sfumature più vicine al territorio della malinconia. Francesco Meola è il fratello, doppelgänger dell’irrazionalità, della ribellione, che trova Dioniso giusto in quel tocchetto di fumo. L’attore è capace di mostrare le incolmabili fenditure di luce presenti  in questo personaggio, apparentemente lineare nella sua struttura. 

Dario Sansalone è l’amico di Oblomov, che tenta, disperatamente, di diventare la sua terapia rivitalizzante. L’interprete riesce a esprimere a meraviglia il dolore, la fatica, le intenzioni devianti, e il freno a mano tirato di chi, forse, trova un po’ di verità in quella scelta apatica. Umberto Terruso è un Oblomov a tutto campo, molto più vitale, seppur dolorosamente, di quanto ci si potrebbe aspettare; smaschera, urla verità scomode per se stesso e gli altri, facendo sentire tutta la sofferenza di quella piombatura metafisica, quel fango che impedisce alle sue ali di spiegarsi nel cielo della vita. Il regista Stefano Cordella si dimostra essere un buon maestro di attori e di attrici, e crea, sul palcoscenico, uno splendido laboratorio sociale, esistenziale, in cui le anime  si mostrano in tutta la loro sincerità. Gli applausi sono meritatissimi per la storia di questo hikikomori gravato  dal peso di dover sentire, e di dover vivere.

Danilo Caravà

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