
PASOLINI, L’ULTIMO INVENTARIO DI RICCI / FORTE
Uno pneumatico da trattore. Enorme, gigantesco, doloroso, pesante. Un peso insostenibile che grava sulla schiena di Pier Paolo Pasolini nel suo cammino verso l’ultimo deserto. Un deserto di morte, di infamia e di sangue. Non c’è Simone ad aiutarlo, lungo la strada. Non c’è sua madre a piangere per lui. Non ci sono donne di Gerusalemme da ammonire. Nella Passione di Pasolini c’è solo un’infinita, disperata solitudine.
Il suo Golgota non è un monte da scalare ma una periferia romana di fango, di melma e di mare. Ostia, l’ultima stazione, non ha la nobiltà di Gerusalemme. Non ne ha la dimensione sacra. Ostia ha l’odore marcio e profano di una discarica. Forse non da sempre. Forse solo da una notte d’Ognissanti di più di quarant’anni fa, dalla notte in cui un altro pneumatico ha fatto scoppiare il cuore di Pier Paolo, e con lui ciò che rimaneva di questa nazione.
Ecco allora che il Golgota di Pier Paolo diventa un’immensa discarica di pneumatici, una montagna di gomme da auto accuratamente disposte una addosso all’altro sull’angolo di sinistra del palcoscenico, in fondo. Con cura, certo. Con la dedizione di chi si prende la premura di dipingere uno per uno quegli pneumatici, regalandogli quel colore bianco capace di nascondere tutto ciò che quelle stesse gomme hanno calpestato: il fango, la melma, lo sterco, i sassi, le pozzanghere putride, l’asfalto, il tuo corpo.
Basta dipingerli di bianco, e si copre tutto. Con quel modo sorridente e ipocrita di chi ha cancellato la sua voce, bollando lui come un pedofilo stupratore e la sua morte come una piccola contesa tra omosessuali. Lui che peccatore lo era senz’altro ma “non abbastanza”, come gli ricorda la Signora Morte, venendolo a trovare saltellando su un sentiero di copertoni, con la sua voce distorta, malefica e beffarda. In fondo Pier Paolo era un peccatore piccolo piccolo. Nient’altro che un Poeta.
Nessun deserto sarà mai più deserto di questo Paese, ci dice Giuseppe Sartori mentre entra nelle vesti e nelle carni di Pier Paolo e il fondale trasmette un giallo intenso, quasi accecante. Giallo come il riflesso della sabbia nel deserto, accecante come la luce necessaria di una profezia. La profezia di chi ha cercato una verità che andasse oltre un’apparente ed inutile realtà, una realtà talmente falsa da risultare inaccettabile a chi non ha saputo accomodarsi mai, cercando nell’arte l’impossibile universo del vero.
Un’arte interrotta da un brutale pestaggio, il cui tragico dettaglio sembra ricostruito passo dopo passo in una coreografia indescrivibile, incredibile per violenza e precisione dell’esecuzione, che coinvolge tutti gli attori in scena. Pasolini – Sartori al centro e intorno a lui le cinque attrici, con maschere da maiali.
C’è solo un grumo di sangue dove prima c’erano lobi, ci dice Sartori – Pasolini alludendo forse all’orecchio che gli fu strappato via quella notte, durante una contesa tra omosessuali a cui avrebbe partecipato, secondo l’unica verità giudiziaria esistente, un unico ragazzino, munito di un bastone di legno marcio con cui avrebbe ridotto a brandelli il corpo di Pasolini, tra orecchie strappate, spalle dislocate, fratture dello sterno, delle vertebre e delle costole. Ed ecco che il fondale si fa rosso, come il sangue che gli copriva il corpo al punto da renderlo irriconoscibile e come il fuoco di vita che diventava Passione di morte, negando al Poeta, anche nell’ultimo atto, un frammento di verità.

Frammenti, sì. Come quelli disseminati da Pier Paolo nelle sue opere. Frammenti da ricostruire, da mettere insieme, come lui stesso suggerisce nel suo articolo più famoso, Il romanzo delle stragi, frammenti da inventariare per riuscire ad avere una visione d’insieme di lui, di noi, dell’arte, del mondo. Un esame autoptico di un corpo, di una nazione, di un frammento d’arte, l’inventario del bene e del male senza il quale non si può procedere ad alcuna liquidazione. Bisogna capire Pasolini, per riuscire a capire noi stessi e per smascherare (smascherandoci) questa società. Bisogna restituire con forza la sua voce, per riempire le caselle del cruciverba rimaste vuote, per trovare la definizione che risolverebbe e riempirebbe quelle caselle. E allora non bastano cinque microfoni in proscenio. Ne servono altri otto, appesi al graticcio, perché la sua voce tuoni e apra un varco nelle nostre coscienze assopite, violentandole, svuotandole per poi ricolmarle.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo, ci diceva il vero Pier Paolo concludendo così la sua Alla mia nazione, e allora il fondale si tinge del blu di questo mare e della purezza ed è proprio lì, dentro il mare, che arrivano Ricci / Forte, disegnando, con una poesia di dilaniante dolore, cinque creature femminili, adolescenti, cinque personaggi che non esisteranno mai perché arrivati troppo tardi, proprio nel giorno di Ognissanti, sul lungomare di Ostia.
E’ così, dopo un violentissimo viaggio, allucinato, allucinante e con un’intensità emotiva quasi insostenibile, dopo che quei copertoni sono diventati tutto, gioco, sentiero, cuscino, strumento di tortura, dopo aver visto creature diaboliche avvicinarsi a carponi al proscenio, con movenze al contempo sensuali e orrorifiche, e venire trascinate via, per i capelli, dopo aver resistito alle risate denigratorie del coro delle cinque attrici, dopo averle viste spose mancate, personaggi mancati, dopo esserci nutriti di parole scritte con un linguaggio così ricercato, talmente poetico, talmente metaforico e talmente popolare da sembrare provenire da Pasolini stesso, ci ritroviamo ancora in quell’ultimo istante, con le cinque attrici in abito da coniglio intente a muovere neon che ricordano il Luminol della Scientifica, mentre Pier Paolo – Sartori muore nella stessa identica posizione in cui fu ritrovato il corpo di Pasolini, a pancia in giù, braccia sotto al petto e volto inclinato verso sinistra. Una delle attrici versa vernice sul suo corpo, per ridisegnare il suo sangue, fa strisciare un copertone sulla vernice e poi lo ripulisce sul bianco pavimento del palcoscenico, liberandolo dalle impurità e lavando le nostre coscienze.
Una dolorosissima e imprescindibile prova di maturità per questi due fondamentali autori con cui, da adesso in avanti, tutto il teatro contemporaneo, non solo italiano, dovrà necessariamente confrontarsi.
PPP Ultimo inventario prima di liquidazione
Teatro Elfo Puccini, fino a domenica 18 marzo
Massimiliano Coralli
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