Recensione: “Il gioco delle parti”

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Foto Fulvio Michelazzi

Prendete tre personaggi – ma non tre qualunque, bensì un trittico di anime pirandelliane -, agitateli senza mescolarli, come nella migliore tradizione dei vodka martini di James Bond, e otterrete la formula vincente di questo spettacolo. Un inferno sartriano, non c’è fuori scena; un filo invisibile lega questa triade, in cui ognuno diventa il contrappasso dantesco dell’altro. In soprammercato, una rete funge da sostanzializzazione della quarta parete, e dà alla vicenda il tono di una royal rumble del wrestling, rissa reale da cui nessuno uscirà vincitore. La regia di Paolo Bignamini segue, idealmente, l’assunto platonico che ci ricorda come sia possibile conoscere le persone più in un’ora di gioco, che in un anno di conversazione. Non c’è testo dell’autore siciliano in cui ci si gratti via con ferocia, con le unghie, fino a farsi uscire il sangue, la maschera propria e degli altri, come questo.

Dal dramma borghese si scivola, fatalmente, verso la tragedia esistenziale, e urge, alle spalle di ogni personaggio, l’insostenibile pesantezza dell’essere, dell’esserci. I fonemi sono, letteralmente, schiaffi dati all’interlocutore, tranci d’anima roventi, che producono il loro caustico vapore nell’aria della scena. La rete delle luci, il dedalo dei chiaroscuri, aiuta non poco ad immergere questa vicenda in una necessaria atmosfera noir. Il duello evocato, catartico, baloccato gingillo mentale nella post-bovaristica moglie della vicenda, diventa, per estensione, l’imperativo categorico di tutto il testo scenico.

Attacchi, difese, finte, contro-finte sono il pane quotidiano dei personaggi che, se potessero, passerebbero a fil di spada l’autore stesso. La ragione cessa decisamente di essere il bon sens cartesiano; si fa arma bianca, acquisendo, così, la capacità di ferire e ferirsi. E questa caratteristica è il sicuro valore aggiunto del lavoro: a fronte di lunghe teorie di equivocate opere pirandelliane, dove le parole girano instancabili come mulini, come l’eterna bovina masticazione, dando l’apparenza di un noioso perpetuum mobile fonetico, questo spettacolo usa la parola come fosse il coltello brandito dal serial killer dell’identità: pronto a colpire ripetutamente, febbricitante di una freudiana coazione a ripetere, la soporifera quiete che appartiene a ben altre latitudini drammaturgiche. I momenti verità, di questo strano interludio in un interno borghese, sono resi meravigliosamente attraverso cornici di luci, in grado di catturarli, entomologicamente, in tutta la loro crudezza. E sembra di vedere il loro disperato e disperante zampettio di insetti come Gregor Samsa, rovesciati sul dorso della loro problematica esistenza. La sensazione di disagio, di nodo alla gola, destinato fatalmente a stringersi, è il sale emotivo e, insieme, catartico per la platea, della vicenda. Il finale gastronomico-cannibalesco, (versione marinettiana, elettrica di un banchetto orrorifico coriolanesco) diventa una secchiata di vernice nera à la Rolling Stones su di una vicenda, già di per sé, oscura e torbida.

Annig Raimondi disegna, con aracnica dovizia, passi fatali, su coturni borghesemente trasformati in tacco 12. E, dalla laringe, chiama a raccolta tutto il demoniaco zolfo che è capace di evocare. Riccardo Magherini sfodera, anche e soprattutto, il suo Doppelgänger, il suo Hyde, pronto a colpire a tradimento. Si muove, dalla quiete alla tempesta, con agilità felina. Mentre Alessandro Pazzi diventa una sorta di bacchetta rabdomantica in grado di vibrare, indicando tutta la liquida vischiosità emotiva della vicenda. Tutti e tre descrivono geometrie sinistre sul tavolo da biliardo della messa in scena, dando alla platea la netta impressione che, in realtà, chi muove le stecche sia un giocatore nascosto, ineffabile quanto il terzo uomo di Aristotele: sconosciuto e presenza inconscia, forse, anche per lo stesso Pirandello.

Danilo Caravà

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